
Jacopo Gassmann
Milano, 18 marzo 2018 - La voce è quella del babbo. Cosa in sé abbastanza impressionante. E che non aiuta ad andare oltre quel cognome ingombrante come un elefante in salotto. Ma sarebbe un peccato. Figlio del grande Vittorio e di Diletta D’Andrea, il più giovane dei quattro fratelli, Jacopo Gassmann è infatti da tempo impegnato in un percorso molto personale. All’interno di un teatro contemporaneo che non teme di confrontarsi con Chris Thorpe o Juan Mayorga. Ad ispirarlo questa volta è «Disgraced» di Ayad Akhtar, da martedì al Filodrammatici con in scena Hossein Taheri, Francesco Villano, Lisa Galantini, Saba Anglana e Marouane Zotti. Un Premio Pulitzer. Che parte dall’Upper East Side di New York per raccontare di convivenza e conflitti religiosi. Inseguendo le chiacchiere di alcuni amici intorno a un tavolo, fra cui il protagonista Amir, avvocato di origini pakistane.
Gassmann, perché «Disgraced»?
«È un testo che ho letto nel 2013, ancora prima che vincesse il Pulitzer. Ne sono rimasto folgorato, possiede una capacità rabdomantica di percepire il sentimento del tempo».
Il contesto non è troppo distante dalla società italiana?
«Siamo nell’Upper East Side, gente benestante, colta. La scena madre vede intorno a un tavolo Amir, sua moglie (una pittrice WASP), un gallerista ebraico e un’avvocatessa afroamericana. New York è un avamposto per quanto riguarda l’integrazione a quel livello, ci può essere una distanza con l’Italia. Ma il lavoro racconta di temi e vicende umane, potenti e universali. Per altro le cose sono diverse da come appaiono…».
Nell’Upper East Side si nasconde una banlieue?
«Diciamo che ognuno si ritroverà a vivere un rigurgito delle proprie radici tribali. Per questo fra i tanti modi con cui si può tradurre “Disgraced” quello che preferisco è “Cadere dalla grazia”, per presunta che possa essere. Non a caso il tema principale è a la rappresentazione».
In che senso?
«Come ci rappresentiamo a noi stessi e agli occhi degli altri. In una delle scene iniziali la moglie di Amir decide di fare un ritratto del marito e lo dipinge nella stessa posa del Moro di Velázquez, schiavo con i merletti. Uno slittamento di senso che lo spingerà a fare i conti con lo sguardo dell’Occidente su di lui».
Per questo parla di un personaggio shakespeariano?
«Ci sono delle somiglianze: c’è Otello, c’è Amleto. Amir vive una scissione profonda: ha abbracciato il sogno americano, è la festa di chi sbarca negli Stati Uniti. Ma come spesso avviene non ha vissuto il «lutto» rispetto alle proprie origini, destinate a tornare».
Qual è il teatro che le interessa?
«Quello che si pone delle domande. In questo momento le ritrovo nella drammaturgia contemporanea. Ma anche i classici lo fanno».
È scomodo o è una fortuna chiamarsi Gassmann?
«Diciamo che ho elaborato la faccenda. E sono vivo. Ora non posso che considerarla una fortuna, un privilegio. Ci ho fatto pace».
Maestri?
«Chiunque abbia incontrato sul lavoro. Oppure dovrei elencare tutti i libri della mia biblioteca…».
Perché il teatro?
«Ho fatto l’università negli Stati Uniti, dal 1999 al 2003. Tornato in Italia ho iniziato a fare documentari ma intorno ai 25 anni mi è capitata l’occasione di lavorare con Roberto Herlitzka per un monologo su Ennio Flaiano. Lui è un gigante e l’esperienza è stata così bella da spingermi a fare questo percorso anomalo, al contrario, dal cinema al teatro. Nonostante i budget inferiori, mi piace la maggiore libertà che si respira sul palco. È il mio habitat».