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"Internazionalità e ottimismo", i pregi della Milano di Achille Bonito Oliva

Il critico d'arte e scrittore ha nel cuore Foro Bonaparte: "Negli anni ’70 era una strada ad alta concentrazione artistica. Al civico 52 ci vivevano il critico Tommaso Trini e Gabriele Mazzotta che proprio in quel periodo stava cominciando l’attività di editore d’arte. Poco più avanti c’era Antonio Diaz, un artista brasiliano" di Massimiliano Chiavarone

Achille Bonito Oliva in Foro Bonaparte

Milano, 11 ottobre 2015 - «Milano è una città viva, in espansione, ottimista, meritocratica. L’avevo già capito quando ero studente di Giurisprudenza». Lo racconta Achille Bonito Oliva, critico d’arte e scrittore.

Ha studiato qui? «Sì, ma solo nel biennio 1958-1959. Seguivo i corsi all’Università Cattolica. Vivevamo a Varese, dove mio padre, conservatore dei registri immobiliari, era stato trasferito. Prendevo il treno delle Ferrovie Nord per venire a Milano. Questa città mi ha subito colpito per gli spazi, il rapporto tra edifici e strade, l’ottimo stato di manutenzione dei palazzi. Una concezione diversa da quella a cui ero abituato a Napoli, città di mare, piena di vicoli, antica, bellissima, ma anche délabré».

E poi è andato via? «Sì, mio padre era stato richiamato a Napoli, dove poi ho completato gli studi. Mi sono avvicinato inizialmente alla poesia, collaborando con il Gruppo 63, poi sono passato alla prosa per trovare infine la mia strada nella critica d’arte. Proprio a Milano ho inziato un’intensa attività giornalistica, verso la fine degli anni ’60 scrivendo per “Domus”. A chiamarmi fu Lisa Licitra Ponti. E intanto frequentavo una via che è diventata per me la chiave interpretativa della città».

La sua via preferita? «Sì, Foro Bonaparte. Negli anni ’70 era una strada ad alta concentrazione artistica. Al civico 52 ci vivevano il critico Tommaso Trini e Gabriele Mazzotta che proprio in quel periodo stava cominciando l’attività di editore d’arte.  Poco più avanti c’era Antonio Diaz, un artista brasiliano. E poi è una via estesa, ampia che guarda da un lato al Castello e dall’altro a Brera. Insomma racchiude tutte le virtù di Milano, l’internazionalità, il decoro, l’ottimismo».

E il suo esordio come critico su un quotidiano è stato sul “Giorno”? «Sì, chiamato da Gaetano Afeltra. “Il Giorno” era in anticipo sui tempi, uno spazio mediatico eccezionale, che ospitava firme rampanti come quella di Alberto Arbasino. Io cominciai con una serie di reportage dagli Stati Uniti sul graffittismo americano. Milano era un laboratorio artistico a cielo aperto. Strinsi amicizia con Ettore Sottsass e sua moglie Fernanda Pivano che mi chiesero articoli per la loro rivista “Pianeta Fresco”. Questa città era un vulcano di idee, un centro propulsore di cultura. Ricordo l’attività del Gruppo T, con, tra gli altri, Gianni Colombo e Grazia Varisco, l’arte programmata, cioè quelle innovazioni che nascevano da esperienze di gruppo in sintonia con lo spirito di collaborazione nato tra gli operai, uno degli aspetti della cultura della fabbrica sviluppatasi a Milano».

Qual è lo spirito di Milano? «Quello della ricerca. La stessa cifra architettonica della città affonda nel ‘700, nel secolo dei lumi, emblema di un clima di libertà e dialogo che ha reso questa città cosmopolita e che ha prodotto la nascita di una borghesia di grandi industrie, di costruttori in senso lato. Il tutto percorso dal filo della speranza e del dinamismo, senza chiusura e senza sospetti. Milano dà l’occasione a tutti di esprimersi. Penso anche al ruolo che hanno avuto le gallerie milanesi, come quella di Guido Le Noci, un pugliese di Martina Franca, che con la sua Galleria Apollinaire rese Milano uno dei centri più attivi della cultura, organizzando, per esempio, nel 1970 la festa per il decimo anniversario del Nouveau Réalisme di cui proprio Milano aveva pubblicato il manifesto. E quella galleria fu anche luogo di incontro tra Yves Klein e Piero Manzoni».

La Milano di oggi? «Meno dinamica, forse perché i grandi personaggi di allora non ci sono più. Ma l’arte è un buon deterrente all’immobilismo, perché rappresenta l’antistanzialità, genera movimento, temporaneità, chiede un corpo a corpo con l’opera e quindi coinvolge inevitabilmente la città. Con grande emozione ricordo che in occasione delle celebrazioni dei 150 anni dall’unità d’Italia, proprio Milano ha organizzato una grande mostra dedicata alla Transavangardia, il movimento che ho fondato a Roma negli anni ’80. Ecco la grandezza di Milano è farsi centro di diffusione dell’arte anche se nata altrove». di Massimiliano Chiavarone mchiavarone@gmail.com