DIEGO VINCENTI
Cultura e Spettacoli

Ferruccio Soleri e il suo Arlecchino: "Ho nostalgia, nessun rimpianto"

A 91 anni l’attore si racconta a tutto tondo: dal suo rapporto con Strehler sino all’amata Milano

Ferruccio Soleri

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Milano, 2 marzo 2021 - Di maschere e di mascherine. Di teatri chiusi e viaggi interstellari. Ma anche di Strehler, di Milano e di un ruolo che dopo sessanta stagioni ti rimane addosso come un amore: gran fuoco e pezze colorate. A 91 anni rintanato sui monti, Ferruccio Soleri chiacchiera del mondo intorno al suo Arlecchino, vecchio amico che ha portato in giro per continenti. Ambasciatore per il Piccolo di una Commedia dell’Arte che ha da poco avuto la sua Giornata Mondiale (il 25 febbraio). Festeggiata dall’attore con un video che a molti è parso la testimonianza di un amour fou. Per un mestiere e per il teatro.

Come mai Soleri ha voluto realizzare quel video? "Desideravo condividere la mia lunga esperienza con le maschere, permettere di conoscere un po’ meglio un orizzonte che magari non tutti hanno avuto l’opportunità di approfondire". Le manca Arlecchino? "Un po’. Ma ho la fortuna di non avere rimpianti, solo ricordi positivi. Arrivato a una certa età non potevo che lasciare il testimone al bravissimo Enrico Bonavera. Però mi dicevano che nonostante gli anni il mio Arlecchino sembrava ringiovanire. Non le nego che mi facesse molto piacere". Come fu il debutto? "Avevo una gran paura di non essere capito. Ma non fu così. Alla fine mi venne pure da piangere. L’interpretazione in sé l’ho costruita piano piano, un passo alla volta, rendendo mia la maschera con la mimica, la voce, l’improvvisazione con il pubblico. E gli spettatori mi hanno sempre amato tantissimo. Qui in Italia e nel mondo. Ricordo che in Germania fu davvero un trionfo. Uscii dal teatro una volta che avevano chiuso tutto perché la gente non voleva smettere di applaudire". Nelle sue tournée è stato ovunque, dall’America all’Estremo Oriente. "In Occidente era più facile, al pubblico veniva spontaneo seguire quello che eseguivo sul palco. In Cina all’inizio mi sembrava di percepire come un pericolo, l’impossibilità di parlarsi. Ma poi invece la reazione fu meravigliosa. Riuscimmo a dialogare proprio grazie alla mia mimica, al corpo e soprattutto alla maschera, al suo essere proiezione di una vita quotidiana comune a tanti, ad ogni latitudine". Strehler? "Un genio. Certo col suo carattere piuttosto particolare. Ma un grande, assoluto genio. Dovrei inventarmi parole nuove per descriverlo. Di certo ho imparato tantissimo da lui". Che legame ha con Milano? "Da fiorentino mi pare di averla assimilata piano piano ma nel profondo, tanto da fare mio perfino il dialetto. Sono in montagna per l’emergenza ma Milano non la cambierei con niente al mondo". Ecco, l’emergenza: come vive i teatri chiusi? "Con dispiacere ma non potrebbe essere altrimenti in questi giorni di sconforto. Dobbiamo però ricordarci che il teatro non avrà mai fine. E sarà presto fondamentale per permettere alla nostra società di ripartire". Cosa intende? "Il teatro è stimolo per la coscienza collettiva, momento vitale per un paese e per il suo popolo, frutto di molteplici attività intellettuali e artigianali. Ora viviamo momenti in cui si percepisce forte il bisogno di sognare n uovamente ad occhi aperti e io sono certo che questo sarà possibile grazie al teatro, all’attore dal vivo, al palcoscenico". Torneremo quindi alla maschera dopo la mascherina? "Sì. E a una bellissima qualità del mio Arlecchino: l’umanità".