DIEGO VINCENTI
Cultura e Spettacoli

Elio De Capitani, l’attore e regista si racconta senza filtri: “Mamma, dolce e dura come Re Lear. L’ho ritrovata solo nella malattia”

Ora porta in scena all’Elfo “La prima luce di Neruda“, l’amico e collega César Brie firma testo e regìa: dal 7 maggio al 5 giugno in Sala Shakespeare

Elio De Capitani, 71 anni, sul palco per “La prima luce di Neruda“ all’Elfo Puccini

Elio De Capitani, 71 anni, sul palco per “La prima luce di Neruda“ all’Elfo Puccini

Milano – Avvertenza: questa volta la si prende un po’ alla larga. Tipo dal 1953. Anno di nascita di Elio De Capitani. Con lui i pensieri si muovono liberi. Fra respiro teorico e quella vita stravissuta. Solo in sottofondo “La prima luce di Neruda”, nuova produzione dell’Elfo (con Fondazione Campania dei Festival), dal 7 maggio al 5 giugno in Sala Shakespeare. Tratto dall’omonimo romanzo di Ruggero Cappuccio, si ragiona di politica e di amore attraverso il tempo e le latitudini. Partendo da un episodio italiano del poeta. Locandina solidissima: l’amico César Brie firma infatti testo e regia, mentre in scena De Capitani è con Cristina Crippa, Silvia Ferretti e Umberto Terruso. Musiche di Francesca Breschi che omaggia la cantautrice cilena Violeta Parra.

De Capitani, con César vi conoscete da quando eravate ragazzi.

“È così. Sarà stato il 71/72, abbiamo una lunga storia milanese alle spalle. Lui aveva rotto con la Comuna Baires e lavorava nel centro sociale dell’Isola dove stava debuttando con “A rincorrere il sole“, spettacolo straordinario che lo salvò dalla depressione. Non riuscivamo ad applaudire da quanto eravamo emozionati”.

Erano gli anni in cui cominciava anche la sua avventura con l’Elfo.

“Entrai in compagnia a 19 anni, già da due ero fuori casa, avevo reciso il rapporto con mia madre e difendevo quella scelta. Perché per quanto donna radicale di sinistra, rimaneva sempre una madre. E io dovevo prendere una distanza, da lei e dall’autorità”.

Qual era il problema?

“Non volevo che mi chiedesse dove andavo, che facevo”.

Dopo avete ricucito?

“È stata una donna particolare, dolce e durissima. Ragazza madre, aveva deciso di tenere quell’inciampo giovanile ma amava le donne e mise in piedi una comune femminile di supporto reciproco. Erano i primi anni ’50. Noi giovani figli maschi eravamo considerati esseri inferiori, vivevamo un contrasto difficile. Per me lei era un Re Lear. Ci siamo ritrovati davvero solo durante la sua malattia. Ventisette mesi di chiacchiere e di risate”. Ha dovuto crescere in fretta. “Ho imparato molto, è stato un allenamento all’esistenza confrontarmi con questa donna che da una parte viveva di esistenzialisti francesi e di Simone de Beauvoir, facendomi leggere Thomas Mann a otto anni; dall’altra ballava il boogie-woogie, giocava a bowling ed era una campionessa di flipper, aveva record in ogni bar. Cristina è riuscita ad avere con lei un rapporto meno spigoloso”.

Voi due state insieme da 52 anni…

“Neruda e Matilde si sono amati per 27. La loro storia è struggente nello spettacolo ma io penso sempre: dilettanti! Ogni tanto io e Cristina ci domandiamo chi lascerà da solo l’altro. Ma stiamo divagando, era per raccontarti la complessità umana che si nasconde dietro al teatro”.

César Brie ha scelto il nomadismo, voi la stanzialità.

“Però il Teatro de los Andes in Bolivia è stato il suo tentativo di fare diversamente, una scelta radicale, sopra Sucre. Prima di dover fuggire per questioni politiche e tornare ad essere un esule in Europa, dopo il grande impegno civile in Sud America, continente considerato “tutta patria”, in un’ottica bolivariana”.

L’Elfo ha invece sempre avuto un rapporto speciale col Cile.

“La prima volta che sono andato in scena era il 12 settembre 1973, il giorno successivo al golpe. I 50 anni dell’Elfo sono quindi coincisi con i 50 anni di quel momento. Abbiamo dedicato al Paese una trilogia: “L’acrobata”, “La morte e la fanciulla” e ora questo lavoro tratto dal bellissimo romanzo di Cappuccio. Occasione ideale per tornare a lavorare con César, nonostante il livore degli ultimi anni”.

Cos’era successo?

“Dovevamo fare insieme “Re Lear è morto a Mosca“ ma fece all’improvviso saltare tutto con un messaggio in chat, dicendo che preferiva impegnarsi con altri. Rimasi un po’ incazzato. Ma in realtà grazie a lui ho capito la frase “La rivoluzione è la maschera del tradimento, il tradimento la maschera della rivoluzione“”.

Cosa intende?

“Il tradimento gli ha permesso di fare ancora una volta qualcosa di rivoluzionario in scena e quindi è stato giusto che lo facesse così, che non prediligesse l’idea amicale a quella artistica. Certo, non è stato semplicissimo da digerire”.

Neruda?

“Dallo spettacolo non emerge un’ammirazione assoluta, anzi. È un modo di vederlo che mi appartiene molto. Da una parte c’è infatti il fastidio per quella retorica di sinistra da vecchi stalinisti; dall’altra l’intimità struggente e meravigliosa delle poesie più personali. Il testo nasce quindi sul conflitto. Oltre che sul lato più romanticone di César. Perché osservare questo lungo amore che attraversa il tempo rimane comunque molto, molto toccante”.