Milano – Sotto le bombe si livellano le differenze sociali? Forse, chissà. Speriamo di non doverlo mai sperimentare. Ma è un po’ questa la tesi di “La Vittoria è la balia dei vinti“, oggi e domani al Franco Parenti. Dove Vittoria è una nobildonna che si ritrova a dover accudire i figlioli della sua balia in crisi di panico, durante il bombardamento di Firenze del 1943. Un apologo. Scritto e diretto da Marco Bonini. Con protagonista Cristiana Capotondi, sempre piuttosto inedita nelle scelte progettuali. In questi giorni madrina del Torino Film Festival.
Capotondi, cosa l’ha convinta a portare a teatro questa vicenda?
“La storia stessa. Intesa anche come Storia con la S maiuscola, che attraversa le nostre vite con delle conseguenze, cambiandoci. Le due donne non saranno più le stesse dopo questo episodio. Metafora di una più ampia dinamica che coinvolse l’intero Paese”.
Il livellamento sociale di fronte alla tragedia?
“Diciamo che si accorciarono le distanze. Sotto le bombe nel testo si spegne la lotta di classe, per quanto ci sia una frattura molto chiara all’inizio. Vittoria è infastidita perfino dal fatto di dover condividere la stessa panca con la balia, che lei chiama serva. Sarà solo nel momento in cui prende in braccio questi bambini, che si ritroverà prossima a un senso di umanità diverso”.
Qualcosa che pare segnare il suo percorso artistico.
“Sì, assolutamente. Mi piace raccontare episodi semplici che rappresentano la vita reale, in questo caso nella cornice di un momento storico che mi ha sempre interessato. È un po’ quello che si vede in “Una giornata particolare“ di Ettore Scola, l’amicizia fra due personaggi così differenti, durante la visita di Hitler a Roma. Riemerge in queste situazioni un senso di appartenenza alla comunità umana, una reale partecipazione al dramma degli altri. Questione di empatia. Per questo vorrei ci fossero molte Vittoria nel mondo”.
Non è però un grande periodo per l’empatia.
“C’è stato un picco durante il covid. Oggi viviamo una quotidianità competitiva e ostativa. Non riconosciamo nell’altro un esercizio di umanità, l’alterità non è più occasione di arricchimento. E invece io credo che prendersi cura di sé stessi e dell’altro, significa prendersi cura dell’intera società, permettendole di raggiungere un nuovo equilibrio. Che poi è un po’ il concetto della “mano invisibile“ di Adam Smith”.
In questi termini come vede Milano?
“A me viene sempre in mente il Primo Maggio 2015, l’inaugurazione di Expo. Il centro era stato devastato dai black bloc. Ma il giorno dopo erano decine di migliaia i milanesi in strada che pulivano sotto lo slogan “Milano non si tocca“. C’è quindi una città aggressiva e inutilmente veloce, incentrata sulla performance. Ma osservo anche un ampio orizzonte di valori basati su spirito solidale, di dono e di passione”.
Come sceglie i progetti?
“Ho sempre voluto storie che mi sarebbe piaciuto vivere e che spesso mostrano una trasformazione positiva. Coi colleghi mi interrogavo come si possa amare un personaggio negativo senza per questo giustificarlo dal punto di vista umano. Faticherei a interpretare una figura che non condivido”.
Se escludiamo errori e ambiguità rimane poco.
“Ma infatti non sono una bacchettona! L’ambiguità è un grande tema dei nostri tempi, chi non ha mai avuto un momento in cui ha faticato ad avere una posizione netta su qualcosa? Io per prima. E anche rispetto agli errori, trovo importante il rispetto delle regole sociali ma altrettanto fondante il diritto di sbagliare. Non giudico, quindi. Ho solo qualche problema con la recidiva”.
Ha sempre voluto fare questo mestiere?
“È stato un sogno già chiaro fin da bambina. Ho cominciato presto, nel 1993 a 12 anni, puoi immaginare le difficoltà. Acceleravo sul set per poi cercare di decelerare fuori, con una vita semplice”.
Sembra estremamente riservata.
“Lo sono. Non voglio che la mia esistenza sia elemento di racconto esterno. Un meccanismo di protezione naturale. È significativo il mio rapporto con il trucco: non ho neanche un mascara, perché per me significa lavoro, non autenticità. E quando indosso una maschera, allora scatta la professionista, l’uscire da sé. Esercizio divertente, basta che poi si torni a casa”.
Cosa non le piace che dicano di lei?
“Che sono seriosa, un po’ secchiona. Non è come sembra. Sento però di dover arrivare preparata alle cose, altrimenti mi viene un infarto”.