DIEGO VINCENTI
Cultura e Spettacoli

Arturo Brachetti, ‘Solo’ con 65 personaggi: “Io, un Peter Pan che non fugge più”

Il celebre trasformista agli Arcimboldi di Milano con un ‘one man show’ da 600 repliche: mi sento in costante rinnovamento

Arturo Brachetti

Arturo Brachetti

Milano – Uno, nessuno, centomila Arturo Brachetti. Fin troppo facile la citazione pirandelliana. Ma bisogna pur trovare un modo per raccontare questa costellazione di immagini e di stupore, racchiusa in un corpo d’atleta. Che da domani al 12 maggio torna agli Arcimboldi con ‘Solo’, capace di raggiungere 720mila spettatori in 600 repliche. Per mezzo mondo.

Insomma: si parla del più grande trasformista in circolazione, qui con un one man show intimo e pirotecnico, in cui racconta il suo percorso artistico dando vita a oltre 65 bizzarri personaggi. Mentre gioca con linguaggi diversi, dalle ombre cinesi al mimo, passando per sand painting e raggi laser.

Brachetti, il suo “Solo” continua a fare numeri da capogiro.

"È il settimo anno, credo di avere il record di spettatori agli Arcimboldi. E consideri che tutto è iniziato nel 2007 con un mese di sold out quando ancora il teatro era considerato una cattedrale nel deserto. Poi l’arrivo di Gianmario Longoni ha cambiato tutto".

Personaggio preferito?

"Il mio è un surf velocissimo e leggero, fra figure spesso provenienti dal cinema e dalla tv. Ma quando sento i piedi staccarsi da terra e inizio a volare, per me è sempre un momento speciale, di vera goduria".

Non c’è il rischio di non riconoscersi più sotto tutte quelle maschere?

"Sono un Peter Pan di 66 anni, sto decisamente meglio oggi di quando ero un ragazzino timidissimo, appena sbarcato a Parigi. I personaggi mi permettono di essere chiunque e di dare un’occhiata anche agli angoli scuri dell’inconscio, come mi capita in “Cabaret”, spettacolo sulfureo. Ma mi sento centrato e in costante rinnovamento, sempre un passettino più in là, cercando nuove cose da imparare. E infatti mi sono capitate esperienze incredibili".

Del tipo?

"Il mio ruolo ne “Il barbiere di Siviglia” con Cecilia Bartoli. Mai avrei pensato di ritrovarmi all’opera a Salisburgo. Sono andato oltre i miei stessi sogni ma continuo a lanciare i dadi. Finché c’è la sfida, c’è il viaggio".

Davvero era timidissimo?

"Una cosa tremenda. Tanto che a 14 anni imparai i giochi di prestigio dal prete per potermi riscattare di fronte ai compagni. Però c’era già la voglia di esibirsi e sul palco si andava mezzi ubriachi, perché le suore ci davano il vin brulé prima di salire. Devo ammettere che funzionava. Poi impari a darti da solo quel calcio in culo che ti fa vincere la voglia di scappare via all’ultimo momento. E la paura all’inizio riguardava anche le interviste".

Ora mi pare che vada meglio.

"Mi hanno girato un link di una chiacchierata fatta nel 1985 con Raffaella Carrà, una cosa orrenda. A parte che ero truccato come Renato Zero, dicevo banalità sconcertanti con grande presunzione. All’epoca mi nascondevo sul serio, la maschera era l’unico modo per andare in scena. E in quel caso l’abito faceva il monaco".

A questo proposito, colpisce sempre la sua disciplina da asceta per rimanere in forma.

"Niente fumo e niente alcol, mi rimangono solo il sesso e il cioccolato. Per il resto riso in bianco, pesce crudo, uova sode, tanta bicicletta e un personal trainer severissimo. Sono un po’ suora, devono essere stati gli anni in seminario. Dove però ho imparato una cosa fondamentale: non è importante avere una vocazione religiosa ma è importante averne una. Un po’ il concetto giapponese di igikai: avere uno scopo nella vita. Quando lo trovi è una fortuna e il mio è solo più appariscente di altri".

La serata più bella?

"Il Premio Molière nel 2000. Oppure Woody Allen in platea con la famiglia, nel 1994. Ma a volte la straordinarietà nasce da serate più normali. Il mese scorso il papà di bimbo autistico mi ha detto che era la prima volta che suo figlio rimaneva concentrato per 90 minuti. È stata una magia, mi emoziona ancora adesso a pensarci".

Quando scende dal palco?

"Ho casa a Torino, è un pezzo del mio mondo. Ci sono due passaggi segreti, i muri si muovono, gli specchi parlano e il telefono è nascosto nel ketchup. Mi rappresenta molto".

Se non avesse fatto l’artista sarebbe diventato prete?

"Possibile. Certo un prete poco ligio ai suoi doveri. Già in seminario avevamo la chiave per uscire di nascosto, correvamo al cinema o al Circolo degli Illusionisti. Ho lavorato invece a lungo come portiere d’albergo".

Come si trovava?

"Ho conosciuto tantissime persone e alla fine il desk è un piccolo palcoscenico, dove provi a intrattenere raccontando il repertorio della città. Mi sa che più che il prete avrei fatto il portiere".

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