
Francesco Villa (Franz) e Ale(ssandro) Besentini
Milano, 18 aprile 2017 - Ogni tanto bisogna fare i conti con i maestri. Anche se si chiamano Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci. Due che farebbero tremare le ginocchia a tanti. Non ad Ale e Franz. Che non solo hanno deciso di omaggiare i due santini milanesi, ma di farlo pure nel tempio del teatro. Da stasera allo Strehler ecco dunque “Nel nostro Piccolo. Gaber, Jannacci, Milano”, scritto dagli stessi Alessandro Besentini e Francesco Villa insieme ad Antonio De Santis e Alberto Ferrari (anche alla regia). Si potrebbe definire un curioso intreccio d’arti: da una parte vita scritta e vissuta del duo comico; dall’altra le canzoni del Signor G e dell’Enzo. Teatro-canzone alla milanese? Qualcosa del genere. Con tanto di band sul palco. Una settimana di repliche all’interno di “Milano per Gaber”. E si va verso il tutto esaurito.
Ale, è la vostra prima volta al Piccolo?
«Sì, la meta più ambita. Ci arriviamo dopo tanto lavoro, con grande gioia. Consapevoli che non è facile per due comici».
Che succede sul palco?
«Raccontiamo la nostra storia, quello che abbiamo scritto in questi anni ma senza passare da una panchina o dal noir. Ci sono cose recenti e altre dei nostri esordi. Ed è rileggendole che abbiamo scoperto come all’epoca fossimo più simili a Gaber e Jannacci».
In che senso?
«Erano cose strane, molto surreali. Siamo stati influenzati da loro, da Milano, dal periodo. Ci siamo ritrovati su un suolo ben coltivato che ci hanno lasciato in eredità i maestri. Alla fine lo spettacolo è un tentativo di integrare la nostra arte con la loro».
Quindi cantate...
«Proprio così! E lo faremo col cuore e non con la voce, cosa peraltro di cui si accorgeranno tutti. Ma non ci interessano i giudizi sulle capacità canore, vogliamo che sia invece evidente la nostra passione».
Una definizione per Gaber e Jannacci?
«Mi viene da fare un paragone con l’arte pittorica. Gaber era un razionale, scomponeva il pensiero per analizzarlo, mi ha sempre fatto pensare a Picasso. Jannacci invece ritraeva figure della vita reale con una luce speciale, come Caravaggio. Ma credo che, nonostante le differenze e gli stili, s’incontrassero nel desiderio di raccontare di ideali, persone comuni, emarginati».
Li avete mai incontrati?
«Gaber in un ristorante a Napoli, lo salutammo come due fan. Jannacci invece me lo ricordo a un provino. Ero giovanissimo, non lavoravo ancora con Franz e lui voleva aprire una scuola di comici. Ci incontrammo in una palestra a Pasteur, arrivò su una Moto Guzzi. Quando lo vidi presi la mia chitarra e gli cantai una cosa che avevo scritto. Roba che adesso mi vergognerei come un cane, ci voleva l’incoscienza dei vent’anni».
E come andò il provino?
«Mi prese ma non riuscì mai ad aprire la scuola. Lo ritrovammo poi insieme nella trasmissione che gli dedicò Fazio su RaiTre. Facemmo l’introduzione a “Son s’cioppàa”. Dopo i complimenti, Jannacci mi chiese come mai non mi ero acceso davvero la sigaretta di cui si parla nella canzone. Ma poi disse: “Fa niente, magari qui non si poteva neppure”».
Molto alla Jannacci…
«Moltissimo. Con quei tempi comici che aveva solo lui».
Altri maestri?
«Paolo Rossi. La sua è un’arte superiore, potrebbe salire su un palco senza testo. Impeccabile. È lui che mi ha trasmesso la passione».
“Nel nostro Piccolo”, dal 18 al 23 aprile. Teatro Strehler, largo Greppi. Info: 0242411889.