Il dottor G e Alda Merini, l’attore Giorgio Marchesi: "La poesia, il manicomio. Una vita d’amore e dolore"

L’attore Giorgio Marchesi è lo psichiatra Enzo Gabrici nel film domani su Rai 1 "Schiacciata dalle regole della società, riuscì comunque a regalare dolcezza"

Alda Merini

Alda Merini

«Alda Merini era una donna dotata di grande sensibilità e profondità di pensiero. Aveva un rapporto diretto con l’assurdità, la semplicità, la fragilità della vita". A parlare è l’attore Giorgio Marchesi che veste i panni dello psichiatra Enzo Gabrici nel film “Folle d’amore: Alda Merini”, in onda domani, 14 marzo, alle 21.30, su Rai 1 (Produzione Rai Fiction-Jean Vigo Italia).

«Sono nata il ventuno a primavera, ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenar tempesta…», recitava l’artista. Fu così?

"Sì. Il dottor Gabrici sostenne che la situazione scaturì dal fatto che la donna, che andava ad abitare, soprattutto nei momenti di dolore, nel suo secondo mondo, quello della poesia, rimase schiacciata dalle regole della società del tempo, che vedeva la figura femminile solo nelle vesti di mamma e casalinga. Penso anche a Van Gogh: il confine tra follia e genio è sempre stato molto labile e spesso i grandi artisti si sono opposti al pensiero comune".

Perché sovente il genio si accompagna alla sregolatezza?

"Non sempre. Ai miei esordi mi dissero: “Dimentica il piccolo borghese e le regole vigenti nello spazio circostante. Sul palcoscenico devi essere libero. Dove c’è l’arte, non devono esistere preconcetti, cose predefinite, giusto o sbagliato“. È vero che molti hanno fatto sì che la sregolatezza confinasse con la malattia. Essa fa parte della ricerca di una verità, che non è quella del mondo circostante".

Alda Merini era la poetessa dell’amore, anche in un luogo in cui dominava il dolore. Cos’era per lei l’amore?

"Nel manicomio non scriveva più, non si amava. Poi, in generale, fu importante per lei l’amore per sé, per la vita, per le figlie, anche se le seguì in modo goffo, ma anche il perdono per il marito amato, nonostante l’avesse fatta internare, e per i medici, non in grado allora di affrontare bene la malattia mentale. Distribuì l’amore in varie direzioni".

Come è riuscito a incarnare il dottor G e a trattare con delicatezza il tema della follia?

"Il regista Roberto Faenza mi ha chiesto di sorridere tanto, gesto rassicurante anche per altri malati. E poi serve la dolcezza, il modo di rivolgere parole misurate, incitando l’artista a decidere insieme il da farsi".

Le sensazioni nel recitare in un ex manicomio?

"In certi luoghi, la testa fa un “click”: si immaginano le stanze e ciò aiuta molto, ma causa anche claustrofobia, angoscia, come se i muri fossero impregnati di lacrime e sofferenza. Lo stesso mi capitò nella cella di un carcerato, fuori per il lavoro, tappezzata di fotografie e con casse dell’acqua per fare pesi. Impatto potente!".

Come il dottore fece affiorare la “primavera” insita nella poetessa?

"Le diede la possibilità di curarsi con la psicanalisi, non con l’elettroshock. Allora i malati mentali erano costretti a sparire in un luogo con un grande buco nero. A lei regalò la migliore cura: una macchina da scrivere".

Alda Merini non viveva come gli altri la vita e la morte. E lei?

"Tuttora sono abbagliato dalla bellezza di alcuni momenti: sensazioni, sguardi, panorami, la meraviglia della vita. Da cinquantenne, poi, comincio ad avere un rapporto più diretto con la morte. Credo che un sorriso con gli occhi lucidi, pensando al bello che qualcuno ci ha lasciato, sia la cosa migliore per onorarlo e ringraziarlo".

Cosa aveva di magico il Naviglio per la poetessa?

"Era uno spazio con persone semplici, un modo per rimanere attaccata a sé, non perdersi, nonostante lo facesse continuamente".

Come vede Milano?

"Da bambino, sui mezzi pubblici, mi colpivano gli operai con le mani sporche di grasso. Poi ricordo la Milano notturna, molto viva. Oggi è l’unica città italiana connessa con il mondo".

Il colore prevalente della città?

"Il rosso, perché ha un cuore pulsante".

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