Milano, l’urlo di dolore delle vittime delle Br

La figlia del magistrato ucciso e due gambizzati: facciamo i conti col passato

L'omicidio di Guido Galli

L'omicidio di Guido Galli

Milano, 28 gennaio 2019 - ​«Sono caduto in strada mercoledì perché non ho visto un gradino, per una micro frattura mi toccherà stare immobile almeno un mese. Un dolore che si aggiunge a quelli che non mi hanno mai lasciato in tutti questi anni. Quel giorno mi torna in mente ancora di più, come un supplemento di sofferenza».

Antonio Iosa ha 86 anni ed è uno dei quattro democristiani che l’1 aprile 1980 vennero gambizzati dalle Brigate rosse nella sede Dc di via Mottarone 5, zona Mac Mahon. Anima della fondazione Carlo Perini, avrebbe dovuto raccontare la sua storia ieri, nell’evento con mostra e docufilm «Gli anni di piombo. Fare memoria per conquistare la riconciliazione» al Centro culturale Insieme di via Dei Cinquecento, ma non ha potuto essere presente a causa dell’infortunio. Il suo messaggio, però, lo lancia dalle pagine de Il Giorno: «Il dolore non si cancella. E la vittima non sono solo io: vittime sono i miei figli, mia moglie, tutti i familiari, amici, conoscenti. È vero che i dolori non mi hanno mai lasciato, sempre dico di essere il gambizzato più iellato d’Italia: dopo che mi hanno sparato alle gambe ho subìto 35 operazioni, ho due by pass per lesioni alle arterie, ho subìto pure danni al nervo sciatico. Non ho più dei muscoli, tolti perché la gamba è stata raschiata fino all’osso. Per quegli spari sono rimasto invalido all’82%». In bianco e nero, tra i pannelli della mostra si può vedere una foto di allora: losa sdraiato su un letto d’ospedale. «C’è sempre una fitta nel mio corpo che mi riporta a fare i conti con quell’esperienza».

Un dolore costante. Mentre chi ha sparato, chi ha ucciso in quegli anni, «spesso ha potuto rifarsi una vita». Altro dolore. Tra i quattro gambizzati c’era Nadir Tedeschi. «Pensavo che ci avrebbero uccisi – ricorda –. Io non mi sono accorto subito dello sparo, vedevo il sangue degli altri e pensavo di essere caduto a terra per la paura. Il dolore l’ho sentito dopo, e lo sento ancora». La mostra serve «per uscire dall’indifferenza e dalla tentazione di rimuovere una storia scandalosa che fino ad oggi - si legge su uno dei pannelli - ha visto alla ribalta i carnefici che predicavano la violenza quale superamento del dibattito politico, superamento della vita democratica». Lo sottolinea anche Alessandra Galli, figlia maggiore del magistrato Guido Galli assassinato il 19 marzo ’80 da Prima Linea. «Venivano prese di mira persone individuate come nemici perché aperte al dialogo. Come mio padre. Spesso ci viene chiesto se perdoniamo, ma non si può intraprendere alcun percorso se prima dall’altra parte non c’è una piena ammissione di responsabilità». Oggi è magistrato anche lei. Cosa farebbe, oggi, suo padre? «Sarebbe preoccupato per il clima che si respira. Cercherebbe di valorizzare il dialogo, a tutti i livelli».

 

 

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro