Violenza all'Arco della Pace: la rosa in faccia, il fischio e il raid brutale

Il film dell'aggressione: diciannovenne finisce in coma. Arrestato il picchiatore, obbligo di dimora al resto del "branco"

L’aggressione all’Arco della Pace ripresa da una telecamera

L’aggressione all’Arco della Pace ripresa da una telecamera

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Milano - "La Squadra mobile non ha trovato alcun movente che possa aver giustificato una simile violenza di gruppo, se non l’interesse fine a se stesso di disturbare un gruppo di ragazzi, che avrebbero proseguito la loro serata in modo del tutto pacifico, per affermare (in origine col pretesto di chiedere una sigaretta) un primato personale con l’imposizione di obbedienza e punizione al rifiuto". Il giudice Ilaria De Magistris esplicita così la frase "aggressione senza un perché", che spesso usiamo per descrivere brutali raid di gruppo. In effetti, non c’è alcuna spiegazione dietro l’aggressione della notte tra il 25 e il 26 luglio 2020 all’Arco della Pace, costata a uno studente diciannovenne diversi giorni di coma al Fatebenefratelli e un ricovero di 16 giorni per le gravi ferite alla testa. L’unica sua “colpa”, peraltro comune ai giovani picchiati nei mesi scorsi da altre baby gang: trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Il ragazzo, che chiameremo Fabrizio, è stato colpito alle spalle con un gancio destro (il vocabolo da boxe non è casuale) ed è stramazzato al suolo, battendo il capo e rimanendo immobile a terra. Dopo un’inchiesta che ha scandagliato a fondo telecamere, celle telefoniche e social network, gli agenti della quinta sezione della Mobile, coordinati dal dirigente Marco Calì e dal funzionario Francesco Giustolisi, sono riusciti a identificare gran parte dei componenti del "branco" e ad attribuire a ognuno di loro un ruolo definito nella baraonda di piazza Sempione: colui che ha materialmente sferrato il cazzotto, M.E., diciannovenne nato in Italia da genitori nordafricani e residente in una cittadina della Brianza (ne usa il Cap come nickname Instagram), è finito ai domiciliari, come da richiesta avanzata dall’aggiunto Laura Pedio e dal pm Francesca Crupi; per altri 5 complici, poco più che maggiorenni, è stato disposto l’obbligo di dimora nei rispettivi Comuni di residenza (da Piacenza al Varesotto, fino alla provincia di Monza). Ci sono pure due under 18 coinvolti, sui quali hanno indagato il capo della Procura dei minori Ciro Cascone e il pm Myriam Iacoviello. Gli accertamenti investigativi hanno consentito di mettere in fila l’intera sequenza di quei minuti drammatici. La ricostruzione parte alle 3.19 del 26: Fabrizio si trova sugli scaloni dell’Arco, in compagnia di altri 7-8 amici. In un altro punto della piazza ci sono circa 20 ragazzi che fanno parte di diversi gruppi apparentemente scollegati tra loro: alcuni sono arrivati da Saronno per assistere a un videoclip girato dal trapper Neima Ezza, appena denunciato per la manifestazione non preavvisata in via Micene (poi sfociata nella sassaiola anti-polizia di piazzale Selinunte); altri si sono semplicemente spostati in città per trascorrere la serata tra piazza Duomo, corso Como e Sempione.

A un certo punto, uno dei minorenni si alza con l’intento di provocare Fabrizio e gli altri: "Ci ha detto che gli avrebbe chiesto una sigaretta e come loro avessero reagito lui ci avrebbe chiamati per picchiarli". Va proprio così: il diciassettenne si avvicina spavaldo, pretende insistentemente una "bionda" e poi strofina una rosa sulle facce di due amici del diciannovenne: "Annusa! Ti piace!". La reazione infastidita è istantanea quanto comprensibile. Lui non aspetta altro: il fischio è il segnale dell’attacco. In pochi secondi, si materializza il resto del "branco", ma il primo scontro si conclude in 40 secondi tra insulti e spintoni. Finita? No, i malcapitati vengono inseguiti e pestati ancora. È in quel frangente che compare M.E., pugile dilettante: si avvicina a Fabrizio senza farsi vedere, flette le gambe e scarica un gancio destro tra orecchio e mandibola. Un colpo da ko. Poi c’è il fuggi fuggi: i gruppetti tornano divisi e prendono diverse strade per sparire. Parte da lì il lavoro dei segugi della Mobile, che individuano il "provocatore" (controllato una settimana dopo dalla polizia sempre nello stesso posto) e da lui risalgono attraverso i social agli altri potenziali membri della gang. I profili vengono analizzati a caccia di tracce: alcuni verranno incastrati dagli scatti postati in precedenza (indumenti identici a quelli indossati la notte del 26) e da segni particolari evidenziati nelle immagini di una telecamera di via Monti (da un tatuaggio alla giacca sporca di sangue sulla spalla di M.E.). E Fabrizio? Si è ripreso dopo una lunga convalescenza (più di 40 i giorni di prognosi) e un altrettanto difficile recupero: ora frequenta l’università. Non ricorda nulla di quella notte: la sua "amnesia dissociativa – ha spiegato la psicologa che lo ha seguito – è eloquente rispetto al pericolo di morte percepito".

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