Esplosione di via Brioschi, l'assassino: "Assolvetemi"

Giuseppe Pellicanò fa ricorso in Cassazione per l’annullamento della condanna a 30 anni

La palazzina distrutta dall'esplosione in via Brioschi

La palazzina distrutta dall'esplosione in via Brioschi

Milano, 30 luglio 2019 - Giuseppe Pellicanò, il pubblicitario di 53 anni, ritenuto colpevole della strage di via Brioschi in cui morirono la moglie Micaela Masella e i giovani vicini di casa Chiara Magnamassa e Riccardo Maglianesi, fa ricorso alla Corte di cassazione. Non accetta il carcere e punta all’annullamento della sentenza di condanna per incapacità di intendere e volere.

Lo scorso ottobre la Corte d’assise d’appello gli aveva già ridotto la pena all’ergastolo inflittagli in primo grado a trent’anni. Ora Pellicanò presenta attraverso il difensore, l’avvocato Alessandra Silvestri, appello contro l’ultima sentenza. L’istanza di 55 pagine insiste sulla condizione di incapacità di intendere e volere di Pellicanò al momento del gesto, finora mai riconosciuta dai giudici. La difesa contesta in più punti la decisione del gup, e poi della Corte, di non tenere conto della perizia psichiatrica degli esperti incaricati dal primo. Secondo cui l’imputato era affetto da una «depressione maggiore» che avrebbe fortemente determinato le sue azioni. Nel giudicare la natura e la gravità dei disturbi mentali dell’ex pubblicitario la Corte d’assise d’appello avrebbe commesso «marchiani errori scientifici», ritiene la difesa, in contraddizione appunto con le diagnosi effettuate da diversi medici che hanno esaminato l’imputato. L’infermità è l’elemento che sta alla base della tesi difensiva. Insieme a quella che viene definita una «cementata volontà suicida» di Pellicanò.

Nell’istanza presentata dall’avvocato Silvestri si citano «molteplici casi analoghi di omicidio-suicidio congiuntamente alla famiglia» che sono stati «ricondotti a disturbi depressivi spesso parzialmente silenti, poi esplosi in un ultimo, grandioso, gesto nell’espressione del delirio da rovina». Il «delirante rimedio» di morire con i propri cari sarebbe quindi un «classico» in tali circostanze, nella «volontà di risparmiare ai congiunti una sofferenza analoga a quella che affligge l’omicida-aspirante suicida». «In tutte queste vicende – si sottolinea – la prostrazione psichica dell’imputato è sempre stata riconosciuta». Nel caso di Pellicanò le cause principali che lo hanno portato a meditare la strage sarebbero state, oltre alla sua fragilità strutturale, la decisione della moglie di lasciarlo e di andare a vivere con un altro uomo, e ancora i problemi di salute della figlia minore, affetta da una grave forma di autismo. La difesa  contesta infine l’imputazione del reato di strage: «Non sarebbe stata questa la finalità del 53enne, che al contrario voleva “solo” uccidere sé stesso e la propria famiglia». Dal carcere Pellicanò ha riferito ai legali di sentirsi «molto in colpa» per ciò che ha fatto e ha ribadito la volontà di «cedere alla due figlie la sua quota della casa di via Brioschi». Quello che resta, cioè nulla perché è stata sventrata dall’esplosione. Ammesso poi che sia un gesto di generosità lasciare alle figlie anche solo il ricordo del luogo che ha ditrutto le loro vite. L’udienza della Cassazione è fissata per il 3 dicembre. 

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