GRAZIA LISSI
Cronaca

Giovanni Pacchiano: "Noi, statalini prima della rivoluzione"

C’é stato un tempo in cui gli studenti si recavano all’università in tram, in aula i ragazzi indossavano giacca e cravatta e le giovani allieve gonne a pieghe

RICORDI Una foto di classe dell’autore alla prima media di via Tabacchi: Giovanni Pacchiano è il quarto da sinistra in prima fila accanto al professore In alto è ritratto nei chiostri della Statale in via Festa del Perdono

Milano, 4 giugno 2018 C’é stato un tempo in cui gli studenti si recavano all’università in tram, in aula i ragazzi indossavano giacca e cravatta e le giovani allieve gonne a pieghe. Gli anni Sessanta erano appena cominciati, il boom economico prometteva benessere per tutti. Critico letterario raffinato, traduttore, scrittore, Giovanni Pacchiano racconta quel periodo ottimista e ingenuo nel romanzo “Gli anni facili” (Bompiani). «La Statale resterà sempre il luogo milanese che amo di più. Resto sempre uno “statalino”», confida l’autore, passeggiando nei chiostri dell’università in via Festa del Perdono.

Com’era allora la Statale?

«Austera, severa, intimidente e bellissima. Oggi è animata da una folla spaventosa che dà un’altra immagine. Nel 1961 gli studenti erano i figli della guerra, senza grandi bisogni. Amavamo lo studio, per noi significava entrare nell’universo della conoscenza. Al liceo avevamo insegnanti pedanti, all’università docenti straordinari. Il programma d’allora era diverso: tutta l’Iliade, l’Odissea e l’Eneide, per italiano l’intera Divina Commedia. Per noi classicisti c’era anche la prova del tema in latino, io l’ho passato subito prendendo 20, altri l’hanno dovuto ripetere nove, dieci volte».

Chi frequentava Lettere classiche?

«Prevalentemente ragazze, i genitori pensavano che l’insegnamento sarebbe stato la professione perfetta per una donna. Invece, la maggior parte delle mie compagne ha intrapreso professioni diverse, ad esempio psicoanalista come Anna Ferruta: la chiamavamo “Anna dal grande cuore”, per la sua generosità. Le più carine erano iscritte a Lettere moderne o Lingue, vestivano più alla moda; nessuna di loro, durante le lezioni, indossava i pantaloni. Una volta una ragazza, di ritorno da Courmayeur, si presentò in aula con i pantaloni da sci e fu espulsa».

Qual era il luogo più frequentato dagli studenti?

«La biblioteca, ci andavamo per chiacchierare e incontrare le nostre coetanee. C’erano alcuni baretti, oggi scomparsi, se avevamo qualche soldo in più andavamo a mangiare all’Oca d’oro; la sera vi arrivavano anche giovani artisti agli esordi, come Cochi e Renato».

È nato in via Tibaldi. Ricorda la compagnia del suo quartiere?

«Si era formata attorno all’oratorio; ci incontravamo la domenica, dopo messa, la sera camminavamo per ore parlando di ragazze, filosofia e film. Allora c’erano 200 sale, molte di seconda visione».

Quali altri divertimenti?

«Il jazz: nel 1960 al teatro Manzoni ascoltammo Jerry Mulligan e la sua orchestra. Milano era provinciale ed epistemofilica, noi impazzivamo per tutto ciò che proveniva dall’estero. C’erano i famosi “whisky a gogo”, locali poco illuminati, la musica era soffusa. Ci andavo con la mia ragazza».

Vi siete accorti che stava arrivando il Sessantotto?

«Ogni giorno, leggevamo i quotidiani. Nel 1967 avevamo saputo ciò che accadeva negli Stati Uniti, ma ci sembrava lontano. Nel 1968 insegnavo già a Monza e nessuno studente parlò mai di assemblee».

Cosa rimpiange maggiormente della Statale di quegli anni?«Il silenzio».