"Si tratta di un ragionamento viziato e obiettivamente inosservante degli obblighi di motivazione rafforzata, cui la Corte era invece tenuta". E ancora: "Il ragionamento probatorio posto a fondamento del giudizio di assoluzione è del tutto monco e inappagante anche in relazione al prospettato differimento del termine entro il quale le prestazioni avrebbero dovuto essere eseguite". Sono piuttosto tranchant le motivazioni della sentenza con cui lo scorso 11 novembre la Cassazione ha annullato l’assoluzione dell’ex comandante della polizia locale di Milano Antonio Barbato (oggi a capo dei vigili di Melegnano), disponendo un appello bis.
Il processo ruota attorno all’affidamento dell’appalto di tre filmati divulgativi sulla sicurezza stradale a Giffoni media service srl. A Barbato e al manager della società Pietro Rinaldi è stato contestato dalla Procura di "aver commesso frode nell’esecuzione del contratto relativo al servizio in questione". Come? "Gli imputati, in concorso, avrebbero in mala fede omesso l’esecuzione di parte delle prestazioni oggetto del contratto, in particolare la realizzazione di un corso teorico pratico di 200 ore che costituiva attività di supporto pratico-teorico a 50 istruttori formatori", riassume la Suprema Corte. Di più: "Barbato, in accordo con Rinaldi, avrebbe, in particolare, omesso di adempiere ai doveri di verifica e controllo, simulando la regolarità della prestazione e in tal modo sottoscrivendo la delibera numero 416 del 2016 con cui attestava falsamente il regolare adempimento del servizio". Un passaggio decisivo, quest’ultimo, per il pagamento di due fatture da 53mila e 9.700 euro "in favore dell’impresa aggiudicatrice". In primo grado, Barbato è stato condannato a 3 anni e 9 mesi per frode in pubbliche forniture e falso in atto pubblico. In Appello, il verdetto è stato ribaltato: assoluzione. "Nessuna frode nelle forniture e nessun falso", il post su Facebook del diretto interessato. Ora il nuovo ribaltone, in accoglimento dei ricorsi presentati dal procuratore generale presso la Corte d’appello di Milano e dal Comune.
I giudici sono partiti da una premessa “filosofica”: se è vero che una sentenza d’appello che conferma quella di primo grado "porta in sé una valenza rassicurante sull’aspettativa che il processo si sia davvero avvicinato alla verità", è altrettanto vero che "l’esistenza di decisioni radicalmente difformi trasmette un messaggio asimmetrico perché lascia sullo sfondo un insoluto quesito decisorio, quello che attiene all’individuazione della decisione giuridicamente corretta tra le due difformi". L’ordinamento, spiegano gli ermellini, "non ha una risposta generale e preventiva" alla questione sollevata da due verdetti antipodici, ma "predispone una serie di regole di garanzia". Regole che si rifanno al concetto di "motivazione rafforzata" e che, a giudizio della Cassazione, sarebbero state bypassate in Appello. In sostanza, i giudici di secondo grado non avrebbero spiegato: perché le prestazioni sotto la lente siano state ritenute "accessorie"; perché il Comune abbia "dovuto liquidare l’intero compenso, che invece era subordinato all’esecuzione dell’intero programma contrattuale"; perché non sia stato richiesto il pagamento della penale di 50 euro per ogni giorno di ritardo, preferendo non meglio specificate "soluzioni amichevoli e bonarie ai disguidi che si erano creati". Processo da rifare.