"Un anno senza il nostro Simone La sera gli “rimbocchiamo le coperte”"

Ucciso durante una rissa. Lo strazio dei coniugi Stucchi: tre volte al giorno siamo da lui al cimitero

Migration

di Barbara Calderola

"Andiamo tre volte al giorno al cimitero. L’ultima, prima che chiuda, per rimboccare le coperte a Simone". E le coperte - metaforiche - sono le pietre della tomba del figlio. Per mamma Daniela e papà Massimiliano la vita si è fermata la notte fra il 29 e il 30 settembre 2021. L’ultima volta che hanno visto il loro ragazzo prima che fosse accoltellato a 22 anni nella rissa di Pessano fra bande rivali per il debito di droga di un altro del gruppo. Limo, così lo chiamavano fin da bambino gli amici di Vimercate, non c’entrava niente. "Non sapeva dire di no. Gli hanno chiesto di andare e lui si era messo in testa di far da paciere.

È stato il primo a farsi avanti in quel maledetto parchetto". Non è riuscito a dire quasi nulla, è stato aggredito subito, fino al colpo mortale al cuore sferrato da un 17enne, poi l’agonia sul marciapiede, i calci e i pugni ricevuti mentre era a terra, la corsa in ospedale. "È passato un anno ma il dolore è sempre più forte - raccontano i genitori -. Il tempo non lenisce, acuisce. È sempre peggio. Ci siamo salvati grazie allo choc: dopo sei mesi non riuscivamo ancora a crederci".

La memoria torna indietro al pronto soccorso del San Gerardo. "Ci siamo arrivati per caso, dopo aver chiamato tutti i centralini degli ospedali. Un amico ci aveva avvisato che l’avevano portato via in ambulanza". È la prima volta che gli Stucchi parlano del momento in cui hanno saputo che il figlio non c’era più. "All’inizio ci hanno detto che era vivo e che lo stavano medicando. Ci speravamo ancora. Dopo un’ora e mezzo sono arrivati cinque dottori. Mio marito ha chiesto: è morto? E loro hanno annuito. In quel preciso istante dentro di noi si è rotto qualcosa per sempre. Niente e nessuno potrà più aggiustarlo. Questo incubo finirebbe solo se Simone potesse tornare. Le condanne dei colpevoli non cureranno la ferita che ci portiamo dentro. Vogliamo dirlo a chi pensa che 30 anni di carcere potrebbero cancellare anche un solo istante di questo inferno: non è così. Il processo è necessario, soprattutto perché speriamo che non lo facciano un’altra volta: ma non ne siamo sicuri". "Ci sarebbe piaciuto che le famiglie di quei ragazzi ci dicessero una parola. Invece niente. Silenzio assoluto". Per sei mesi marito e moglie non si sono mai staccati uno dall’altra: "È stato il nostro modo di non crollare. Non possiamo permettercelo: abbiamo una figlia, Andrea, con i nostri stessi sentimenti.

Abbiamo traslocato in una casa nuova la cameretta di Simone e per sentirlo più vicino capita che indossiamo le sue felpe e le sue magliette. Era un ragazzo speciale, allegro con una certa saggezza: le sue opinioni ci aiutavano a vedere le cose da un altro punto di vista. Non possiamo accettare che sia morto per niente: lui i pessanesi non li conosceva. Quando ci hanno detto che il nostro piccolo se ne era andato mi sono messa a ridere, talmente mi sembrava assurdo. E invece è tutto vero".

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro