Un anno di ambulatorio Covid meno di uno su 5 in ospedale

Lo studio del San Raffaele su 660 pazienti del suo hot spot tra 2020 e 2021. La responsabile: abbiamo creato un luogo in cui si collabora coi medici di base

Migration

Se n’è tornato a parlare nell’ultima settimana, dopo lo “sdoganamento” della prescrizione anche da parte dei medici di base della pillola antivirale Paxlovid destinata al trattamento precoce di persone infettate dal coronavirus che per le altre malattie di cui soffrono sono a più alto rischio di sviluppare la malattia in forma severa. Ma non si limita certo a questo farmaco, che in Italia è disponibile da meno di due mesi, la presa in carico preventiva delle persone a rischio dopo un tampone positivo: già dall’autunno del 2020, all’inizio della seconda ondata pandemica, a Milano sono stati creati, in collegamento con ospedali, alcuni tra i primi ambulatori hot spot Covid in Italia, per offrire assistenza specialistica e terapie adeguate, domiciliari o ambulatoriali, ai "paucisintomatici" ed evitare di ricoverarli senza necessità in ospedali che particolarmente durante le ultime due ondate pre-vaccinazioni di massa sono stati sovraffollati anche da persone che potevano essere curate a casa.

Uno di questi primi servizi è stato aperto al San Raffaele, e ora i medici che ci hanno lavorato per un anno e mezzo hanno pubblicato, sulla rivista scientifica Frontiers in Medicine, uno studio in cui riportano la loro esperienza di gestione ambulatoriale dei pazienti Covid con un approccio innovativo di cura. Che ha incluso lo sviluppo di un metodo basato sulle evidenze di classificazione dei pazienti in gruppi di rischio di progressione della malattia, per condividerlo con i medici di base. Dei pazienti coinvolti nello studio, 660 persone valutate dall’hot spot del San Raffaele in un anno e un mese (da ottobre 2020 a novembre 2021), il 70% vi era stato inviato dal suo mutualista, il 21% dal pronto soccorso, il 9% da altri specialisti. Solo il 18% degli utenti è stato poi mandato in pronto soccorso e ricoverato; gli altri sono stati gestiti dall’ambulatorio (235 con più di una visita) e poi riaffidati al medico curante.

"Il nostro obiettivo – ricorda la coordinatrice dello studio e responsabile dell’hot spot, la professoressa Patrizia Rovere Querini che dirige anche il programma strategico di integrazione ospedale-territorio della struttura privata ma convenzionata col servizio sanitario pubblico – era alleggerire il pronto soccorso e al tempo stesso rafforzare la medicina territoriale, duramente messa alla prova dalla pandemia. Abbiamo organizzato in pochi mesi un luogo di incontro diretto tra medici ospedalieri e del territorio, che potevano condividere casi clinici complessi o segnalare pazienti nelle fasi iniziali della malattia, prima che l’aggravarsi del quadro clinico ne richiedesse l’invio in pronto soccorso". I "pauci" indirizzati all’hot spot, affetti da un Covid moderato o anche solo contagiati ma con fattori di rischio che li espongono maggiormente alla malattia severa, abitano quella zona grigia tra gli infettati che hanno bisogno di cure ospedaliere e quelli che possono gestire la malattia a domicilio. E trattandosi di una malattia nuova, i medici di base non sempre hanno gli strumenti per stabilire chi ha bisogno di un monitoraggio più attento, chi deve andare in pronto soccorso e chi invece potrebbe evitarlo. "Una valutazione accurata in un contesto ambulatoriale ospedaliero da parte di medici esperti può colmare questa lacuna, consentendo una classificazione tempestiva del rischio, indirizzando il paziente verso le cure più adeguate - chiarisce la professoressa -. Dopo che la malattia è accertata con un tampone, possiamo seguire i pazienti con un percorso diagnostico e di valutazione clinica molto dettagliato e collaborare coi medici di base nella loro gestione, condividendo con loro tutti i passaggi".

Così, dopo la visita e i primi esami (come l’ecografia polmonare e alcuni test specifici del sangue) all’hot spot, un paziente può essere mandato in pronto soccorso se la situazione è grave, o al contrario essere dimesso e affidato alle cure del suo dottore, o infine essere inserito in un percorso di follow up con altri appuntamenti all’ambulatorio, che lo monitora fino alla stabilizzazione o alla guarigione. "Questa modalità di cura modellata sui bisogno del paziente è stata un successo – conclude Rovere Querini –. L’augurio è che ciò che abbiamo imparato non si perda: potrebbe essere applicato per i pazienti cronici, che necessitano di monitoraggio e cure continuative, spesso in collaborazione tra specialisti e medici di base".

Giulia Bonezzi

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro