
di Nicola Palma
"Il fatto non sussiste". Con questa formula, la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio la condanna a due anni di reclusione del giudice del Tar in pensione Adriano Leo, che proprio oggi compirà 78 anni, accusato di aver depositato una sentenza diversa da quella concordata in camera di consiglio sulla vicenda Sea Handling. Gli ermellini non hanno ravvisato gli estremi per contestare all’allora presidente della terza sezione del Tribunale amministrativo della Lombardia il reato di falsità ideologica in atto pubblico. A questo punto, urge un passo indietro.
Il 19 dicembre 2012, la Commissione europea stabilisce che i 360 milioni versati da Sea (la spa che gestisce Linate e Malpensa ed è posseduta in maggioranza dal Comune di Milano) alla controllata Sea Handling tra il 2002 e il 2010 vanno etichettati come "illeciti aiuti di Stato", e ne chiede il recupero. Il 4 marzo 2013, Palazzo Chigi emette una nota per comunicare l’avvio del procedimento per il recupero degli importi trasferiti da Sea alla società che si occupava dell’assistenza a terra e della gestione dei bagagli: l’ammontare, comprensivo di interessi e sanzioni, è pari a 452 milioni di euro. A quel punto, Palazzo Marino si rivolge al Tar per chiedere l’immediato stop all’esecutività dei provvedimenti del Governo e "degli atti presupposti eo connessi, tra i quali la decisione della Commissione europea del 19 dicembre 2012".
Il 22 maggio 2013, il collegio composto da Adriano Leo (presidente ed estensore), Silvana Bini (consigliere) e Fabrizio Fornataro (primo referendario) accorda la sospensiva cautelare all’amministrazione di piazza Scala e "sospende la gravata decisione 19122012 SA.2140 (C142010) della Commissione europea e il gravato relativo procedimento nazionale di recupero di somme a carico del Comune di Milano". Tutto finito? No, perché qualche tempo dopo il giudice Leo viene denunciato dal Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (l’organo di autogoverno) perché avrebbe scritto una sentenza diversa da quanto stabilito a maggioranza in camera di consiglio. Scatta l’indagine della Procura, che si conclude con la richiesta di rinvio a giudizio per falsità ideologica. Leo, interrogato, spiega: "Non intendevo minimamente intaccare la validità degli atti europei, il mio fu un lapsus calami (errore nello scrivere, ndr)". Una difesa che non basta a evitargli la condanna a due anni, confermata in Appello. Ora il ribaltone in Cassazione: "Nessuna falsa rappresentazione della realtà risulta configurabile – si legge nelle motivazioni – in quanto l’ordinanza conclude esattamente per l’accoglimento, consacrato nel dispositivo, della suddetta istanza cautelare volta alla sospensione degli atti del procedimento amministrativo interno, sulla base della duplice valutazione positiva del fumus boni iuris e del periculum in mora svolta in motivazione, in assoluta coerenza, dunque, con la decisione assunta in camera di consiglio, che delimitava a tali atti l’effetto della tutela cautelare accordata".
E il riferimento alla Commissione europea? "Si pone del tutto al di fuori della struttura e della finalità dell’ordinanza cautelare di cui si discute, rappresentando un elemento spurio, privo di qualsiasi logica processuale, dotato, nell’economia dell’atto, di una irrilevanza talmente radicale da renderlo non tanto un falso innocuo, quanto, piuttosto, tamquam non esset, in quanto tale inidoneo a ledere la fede pubblica". Tradotto dal latino: come se quel passaggio non sia mai esistito.