
Francesco Bonifacio, 30 anni e rider in piazza Duomo
Milano, 28 dicembre 2023 – Sei mesi da rider per studiare sul campo e ricostruire dall’interno pratiche e traiettorie di un lavoro tanto emergente quanto precario. L’esito della ricerca etnografica condotta a Milano da Francesco Bonifacio, 30 anni, sociologo dell’Università Cattolica, è ora nel libro “Fare il rider“ (Mimesis).
Quante ore ha pedalato in quei sei mesi del 2020?
"Circa 15 ore alla settimana, soprattutto nei weekend, perché mi permetteva di acquisire punti per lavorare di più e di espormi alle stesse condizioni dei rider. Il mio picco è stato 60-70 chilometri al giorno: c’è chi ne fa molti di più. Poi passavo molto tempo con loro per le interviste e per capire come apprendevo io stesso il lavoro in un mondo in cui nessuno ti insegna nulla, ma i saperi si condividono nei gruppi sociali. Studiavo gli assembramenti. Ho somministrato questionari a 130 rider. Al termine di ogni giornata stilavo il mio diario di campo che conteneva frammenti del mio lavoro e del lavoro degli altri".
L’identikit del rider?
"Le barriere all’ingresso sono inesistenti: è molto facile ottenere un account. E c’è un’ampia eterogeneità della forza lavoro. Inizialmente c’erano molti studenti (ancora presenti nelle città di provincia) o giovani in cerca di un lavoro temporaneo. Oggi, soprattutto a Milano, sono soprattutto migranti, spesso con permessi di soggiorno precari, di origini sub-sahariane. Ma anche con questa lente si rischia di semplificare. C’è chi parla molto bene l’italiano e chi no, chi vive nei centri di accoglienza e chi è molto ben integrato. Un’altra figura che ho notato è quella dell’italiano adulto, tra i 40 e i 50 anni, che in questo impiego trova un punto di svolta anche se precario, dopo un percorso di lunga disoccupazione o in alcuni casi di detenzione".
C’è molta competizione?
"I rider sono inquadrati come lavoratori autonomi, i rischi legati al lavoro ricadono tutti su di loro. E non viene fornita formazione in termini di sicurezza stradale. Più rider sono ingaggiati dalle piattaforme e meno redditi pro capite ci sono. Le piattaforme costruiscono su queste logiche la propria posizione di potere: si costruiscono i famosi eserciti di riserva perché avere un rider in più costa poco, non si devono pagare tutti i contributi e le tasse che spettano alle aziende. Costi materiali e immateriali, bici, smartphone e dispositivi di sicurezza sono a carico del lavoratore".
Miti da sfatare?
"I rider dimostrano che per fare questo lavoro servono molte competenze, da quelle fisiche che permettono di stare su una bici 8-9 ore alla conoscenza della città in termini geografici, dalle capacità relazionali a quelle digitali e tecnologiche. È uno dei pochi lavori in cui non solo nessuno ti forma, ma si presume tu sappia fare quel lavoro".
Cosa l’ha colpita, che non si aspettava?
"Oltre all’eterogeneità anche il rapporto con clienti e ristoratori, paradigmatico del nostro tempo: ho assistito spesso a conflitti tra lavoratori che un tempo si sarebbero riconosciuti parte della stessa classe sociale. Le piattaforme digitali, poi, hanno messo nelle condizioni non solo di fare i clienti ma i manager. E, nel caso dei rider, dalla recensione dipende la possibilità di lavorare in futuro: premiati o penalizzati".
Milano è a misura di rider?
"Sono appena tornato da un’esperienza di ricerca a Copenaghen e le differenze si notano. Nonostante gli sforzi fatti e la presenza di molte più piste ciclabili, la città conserva un’infrastruttura urbana che è fatta a immagine e somiglianza dell’automobilista. Al tempo stesso, si sviluppa una pratica di guida tra i rider coerente con la modalità di lavoro che spinge alla performatività, ma conflittuale con la sicurezza. Anche questo crea tensioni".