La storia di Diego: "Troppo qualificato, così faccio il rider"

Diventa virale la denuncia del fumettista-ciclofattorino Diego Cajelli: uno sfogo, sono contento abbia smosso le acque

Diego Cajelli

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Milano, 27 gennaio 2021 - «Faccio il rider perché con un curriculum come il mio sono troppo qualificato per fare qualsiasi altra cosa. Faccio il rider perché le faremo sapere. Faccio il rider perché ho le mie colpe, i miei difetti, lo faccio perché ho commesso degli errori, come capita a tutti. A quelli come me però, le colpe, i difetti e gli errori non vengono perdonati». Suona come una litania, sembra quasi una preghiera il post diventato virale (questo è solo uno stralcio) pubblicato su Facebook da Diego Cajelli, rider milanese che compirà 50 anni a luglio. Un mestiere che si è trovato a fare per capacità di adattamento. «Faccio il rider perché, mi dicono, non sono stato capace di vendermi. Ma, se fossi stato capace di vendere, non avrei mai fatto il lavoro che ho fatto». Quello di fumettista e sceneggiatore: ha lavorato per Sergio Bonelli Editore scrivendo per Zagor, Dylan Dog e altri albi. Ha fatto parte dello staff di autori di Diabolik e ha partecipato alla creazione della graphic novel «Il ragazzo invisibile», collegata al film di Gabriele Salvatores. Ha scritto testi comici per lo Zelig di Milano. E’ stato docente alla Scuola del Fumetto di Milano e all’Università Cattolica. E sono solo alcuni esempi pescati dal curriculum. 

Poi che è successo?  «Nel periodo pre Covid mi sono dedicato alla scrittura di spettacoli comici dopo 30 anni di lavoro come sceneggiatore di fumetti. Non è stato proprio il momento giusto per lanciarmi in un’altra impresa. Sottolineo che non sto accusando nessuno. In questo momento della mia vita, fare consegne mi serve anche per fare chiarezza su me stesso e capire capire come migliorarmi. Viaggiare in motorino mi dà la libertà di pensare. Scrivere non mi dava più la possibilità di vivere, non è accettabile essere pagati ogni 90 giorni e aspettare mail che non arrivano. Sono un papà separato, ho un bimbo di 8 anni. Prima del Covid vivevo da solo e ora sono tornato con i miei genitori. Mi sono stufato di correre dietro alle promesse. Allora ho pensato: ‘Da ragazzo facevo il pony express e mi piaceva. Perché non provare come rider?’ Ed eccomi qui». 

Il suo post è stato condiviso più di 2mila volte. Se lo aspettava?  «Per niente. Però sono contento che sia servito a smuovere le acque: sto ricevendo proposte lavorative e vorrei che anche ad altri capitasse lo stesso. Ho conosciuto colleghi rider, mi capita di chiacchierare con loro e penso che la cosa importante sia non stare fermi. Nel movimento è la vittoria». 

Su Facebook scrive anche riflessioni sui suoi viaggi da rider. Come le sembra Milano, da questa prospettiva?  «Attraverso la città di notte, faccio una ventina di consegne, e la vedo triste perché vuota. Ma al tempo stesso offre scorci meravigliosi. Avevo dimenticato di quanto fosse bella. Viaggio da un punto a un altro guidato da un algoritmo ma i luoghi che tocco risvegliano in me ricordi e suggestioni. Robert Pirsig, nel suo libro ‘Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta’, dice che quando sei su due ruote sei dentro il paesaggio. Da rider ho un punto di vista sulla città che altrimenti non avrei».

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