Milano, processo al biotestamento: assolto

Aula finta, discussione vera: giudici, avvocati e medici a confronto su vita e morte

Il giudice Amedeo Santosuosso

Il giudice Amedeo Santosuosso

Milano, 7 ottobre 2018 - “Assolta” Barbara Rizzi, direttore scientifico di Vidas che ieri, da medico, s’è prestata a far l’imputata in un finto processo celebrato dalla onlus che da 36 anni assiste gratis i malati terminali insieme agli Ordini dei medici e degli avvocati di Milano e all’Anm nell’aula magna del Palazzo di Giustizia.

Un “processo al biotestamento” dal quale, alla fine, esce assolta, o quantomeno non condannata, anche la legge 219 del 2017, pur nelle questioni irrisolte di un pezzo di platea – magistrati, avvocati ma soprattutto medici che quotidianamente si confrontano col reale del fine vita È un caso di divergenza tra la volontà del paziente e quella dei suoi familiari quello messo in scena, solo ispirato a vicende reali. Una donna morta di Sla prima della legge che ha introdotto le Dat (Disposizioni anticipate di trattamento), che ha però sempre detto a medici, infermieri, psicologhe, amiche, ex marito di non essere disposta a terapie invasive, ad essere insomma attaccata alle macchine per nutrirsi, idratarsi, respirare. L’ha detto a tutti tranne che ai suoi figli, che la vogliono viva il più a lungo possibile, e arrivano a negarle una irrilevante sigaretta. La donna, nel corso della malattia, ha accettato alcune terapie non invasive, negoziandole per non rinunciare a cose che ritiene fondamentali, come ricevere visite. Secondo Rizzi «ha vissuto sino alla fine con grande dignità». Secondo il pubblico ministero (il processo finto ha veri pm, avvocato e giudice), la dottoressa non ha approfondito a sufficienza queste ambiguità nella manifestazione della volontà della paziente. E Tiziana Siciliano – il procuratore aggiunto che ha chiesto prima l’archiviazione, e poi, con una requisitoria storica, l’assoluzione del radicale Marco Cappato nel processo vero per il “suicidio assistito” di dj Fabo, ora sospeso in attesa della Corte Costituzionale – ce la mette tutta a interpretare il ruolo, toccando il nervo scoperto della «qualità della volontà espressa» in salute e in malattia. Chiede la condanna del medico per negligenza. Il difensore Gianmarco Brenelli ribatte che la paziente «non è la signora Ponza di Pirandello» in “Così è (se vi pare)”: «Cerca il consenso dei figli ma non vuol essere “colei che mi si crede”. Capisco la legge che esclude i parenti dalla decisione: sulla soglia della morte siamo tutti soli. Questi sono i diritti infelici, i medici non hanno fatto che rispettarli». Il giudice Amedeo Santosuosso, sentiti come testi il figlio e la psicologa Sonia Cristina Ambroset, concorda e assolve Rizzi, alla quale ritiene applicabile la legge 219, «perché il fatto non costituisce reato». Anzi, suggerisce un ex magistrato in platea, ci vorrebbe un supplemento d’indagine sulle pressioni dei figli, che non hanno risparmiato alla madre alcune sofferenze. Ma è un caso, nella sua delicatezza, più lineare della media reale, rilevano alcuni in aula, dove si sviluppa la discussione sulla legge del 2017.

Una legge arrivata, ricordano i magistrati, dopo molta giurisprudenza e casi come Englaro e Welby. Una rianimatrice ricorda: «Noi non abbiamo quasi mai la possibilità di sentire il paziente». Le risponde l’“imputata”: «La legge non risolve per chi non lascia le Dat, ma penso abbia aperto una breccia culturale per iniziare a parlarne come cittadini». Il presidente dell’Ordine Roberto Carlo Rossi sintetizza i dubbi di diversi medici sulla distanza tra la norma e una realtà «non attrezzata per il tempo della comunicazione col paziente, con ospedali che dicono al medico cosa fare rischiando di trasformarlo in un mero esecutore». Gli risponde il giudice: «Rispettare la volontà del paziente alla fine della sua vita è complicato ma è una sfida da cogliere. Ora c’è la legge e non esistono più alibi». E forse non sono ci sono mai stati, ricorda Momcilo Jankovic, pediatra oncoematologo, quarant’anni a Monza tra i bimbi malati di leucemia: «Il 70-80% guarisce, ma un 20% muore. Per comunicare coi genitori ci vuole tempo, capacità di essere vicini senza dare prospettive miracolistiche». A volte di forzarli per realizzare il desiderio solo apparentemente futile di un hamburger. Perché «i bambini anche in questo ci sono maestri». E Jankovic racconta di un paziente di otto anni, due trapianti in condizioni già disperate «cedendo ai genitori che volevano il tutto per tutto. Mi disse: “Sai io non voglio morire, ma ho paura di vivere”».

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