Paolo Conte ci ripensa e sabato torna al Teatro Arcimboldi

Dopo il trionfo alla Scala il cantaurore si regala un altro palcoscenico. “Canzoni nostalgiche? Il presente si muove, non lo si riesce a leggere”

Paolo Conte ha compiuto 86 anni il 6 gennaio scorso

Paolo Conte ha compiuto 86 anni il 6 gennaio scorso

Milano –  Aveva già detto basta. Poi è arrivato il via libera della Scala e ci ha ripensato, nella consapevolezza che qualsiasi diniego avrebbe rappresentato un uso criminoso dell’avverbio “no”. Ma siccome “l’appetito vien mangiando e la musica suonando” Paolo Conte si regala qualche altro palcoscenico, tornando sabato in concerto agli Arcimboldi col suo mondo di cravatte sbagliate e tinelli marron.

Sidney Bechet diceva che bisogna fidarsi della musica perché è la strada che ti porta ovunque. Dove l’ha portata?

"Beh, alla Scala!".

Dice che nella sua attività è sempre valso il principio “cherchez la musique et la paresse” (la pigrizia). Più “musique” o “paresse”?

"Entrambe, ma non sempre. Ho lavorato tanto”.

Delle tante vite immaginate (e raccontate) nelle canzoni, ce n’è una in particolare che avrebbe voluto vivere?

"Sera dopo sera, mi sono affezionato a tanti dei miei personaggi. L’uomo del Mocambo, ad esempio. Più di recente m’è venuto abbastanza in simpatia il protagonista di "Vita da sosia”, in cui, per raccontare l’accoglienza “mas tribolante” riservata delle frequentatrici di una casa di tolleranza ad un tizio scambiato per un comandante della guardia civil, metto assieme lingua italiana, spagnola e dialetto napoletano trasformando il tutto in una specie di zarzuela”.

Come ci si sente a stare sul piedistallo?

"Ci hanno messo un po’ di tempo ad arrivare a questa celebrazione non so se per merito o per l’età avanzata. Sentirmi chiamare maestro, però, mi lusinga”.

Un tempo la sua musica sul palco era in giacca e cravatta, poi in smoking e infine più casual. Scelta in ossequio alla “grazia plebea” della canzone popolare o altro?

"In verità, più comodo”.

I fantasmi della Scala cosa le hanno lasciato?

"Non li ho incontrati, si saranno nascosti...".

Da quella serata di fine febbraio nascerà un disco dal vivo?

"Può darsi”.

Dicendo che oggi per lei scrivere una canzone è un po’ come arrampicarsi sugli specchi si riferisce alla mancanza di slancio o della storia giusta?

"Non ricordo di aver pronunciato questa frase. O forse sì, chi lo sa?".

Le sue canzoni sono dei piccoli film. Che impressione le fa avere tra i suoi estimatori pure divi hollywoodiani come Robert De Niro, che sembra avere un debole “Onda su onda”?

"Mi fa piacere, sono un ammiratore di De Niro. E poi la costruzione di un film e la costruzione di una canzone hanno molte cose in comune”.

Molti anni fa disse che quella delle sue canzoni non è nostalgia, ma solo incapacità di leggere il presente. Conferma?

"Confermo. Il presente si muove, non lo si riesce a leggere”.

A proposito di divi del grande schermo, rimase sorpreso sentir dire a Marcello Mastroianni che gli assomigliava?

"Credo che Mastroianni semplicemente mi volesse indicare come interprete del suo personaggio in Sostiene Pereira”.

Il mondo della musica afroamericana l’ha avvicinato grazie allo zio Gino, quello della canzone. Quanto gli deve?

"Era il più “moderno” della famiglia. In lui avevo trovato un alleato alla mia passione per il jazz”.

Cosa le provoca quel vecchio Schiedmayer su cui ha scritto tanti successi?

"È il mio pianoforte preferito, apparteneva a mio padre. Un pianoforte dolce e complice”.

Ricorda il primo concerto?

"Metà anni ’70, nella hall di una vecchia funivia in disuso".

La canzone può essere considerata “servizio pubblico” un po’ come lo Stato teorizzato da quel Léon Duguit a cui ha dedicato la sua tesi di laurea?

"Forse Duguit se ne infischiava delle canzoni. Chissà mai?”.

Se dovesse incidere su una targa il verso di un suo brano da lasciare alla posterità, quale sceglierebbe?

"Al volo: quella “Ghibli che soffia dietro una porta chiusa“ da “Colleghi trascurati".

Il 21 luglio conclude questo giro di concerti in Piazza Santissima Annunziata a Firenze. E poi?

"Poi? Ah, la paresse!”.