
Omaggio al chirurgo Rastelli. Morì per restare coi suoi feriti
"Mi resi conto allora della tempra eccezionale dell’amico Rastelli. Egli sapeva, come noi tutti, che fermarsi voleva dire la prigionia e con molte probabilità anche la morte. Ebbene, scartò ogni altra soluzione imponendosi di restare laggiù con i suoi feriti, pur sapendo che forse la sua grande esperienza di medico coi Russi non sarebbe servita". I documenti sono pochi, gli scritti sono frammentari. Ma bastano a ricostruire la grandezza di Ettore Rastelli, il melzese, medico chirurgo all’ospedale di Melzo e poi sottotenente medico della 156esima Sezione Sanità della Divisione Vicenza, morto nel campo di prigionia russo di Oranki nel 1943.
"Poteva tornare in patria, scelse di restare in Russia, di non lasciare chi aveva bisogno di lui". Oggi il Gruppo Alpini di Melzo, con patrocinio del Comune, promuove una giornata di ricordo del melzese illustre, "che non fu Alpino, ma dell’“alpinità” incarnò il senso più nobile": alle 15.30 una commemorazione al cippo del Parco Rastelli, alle 17 un secondo momento al Santuario dell’ospedale Santa Maria delle Stelle, alla presenza delle autorità cittadine e ospedaliere, di molte associazioni di combattenti e di reduci, del coro del Gruppo Ana melzese. Ettore Rastelli, libero docente in chirurgia, fu direttore sanitario dell’Ospedale di Melzo e negli anni fra il 1938 e il 1942 diede un contributo sostanziale alla trasformazione del nosocomio in ospedale d’eccellenza. Poi la chiamata alle armi, come sottotenente medico della 156esima Sezione sanità della Divisione Vicenza, impegnata sul fronte russo. Sicura la fine: Rastelli partecipò alla drammatica marcia del Davaj "sempre assistendo i suoi feriti e altri militari, incurante della propria salute", e, finito in prigionia, morì in Russia, al campo n.74, a Oranki. Uno dei racconti quello dell’ufficiale Giuseppe D’Istria, uno degli ufficiali rimasti accanto a Rastelli fino alla fine. "Era forse quello che aveva il morale più alto: ancora forte fisicamente, aveva uno spirito indomo che lo sorreggeva, e le sue parole e i suoi gesti infondevano coraggio anche a noi. Ci incitava a muoverci, a non abbandonarci, a fare qualche cosa per migliorare, fosse anche di poco, le nostre condizioni; insomma non voleva farci sopraffare dalla morte che con le sue ali nere ci volteggiava sul capo, non voleva arrendersi ad essa senza prima avere lottato". E ancora: "Io, più giovane, avevo 21 anni, lo guardavo ammirato: aveva sul volto emaciato un non so che di biblico e di messianico: alle sue parole riprendevo anch’io le forze che sentivo mancarmi".