Giambattista
Anastasio
Credo che a nessun tifoso di qualsivoglia club italiano di calcio possa più capitare quanto è capitato ai tifosi del Milan nel trentennio berlusconiano. Abbiamo visto alzare sotto i cieli d’Europa qualcosa come 5 Coppe dei Campioni o Champions League che dir si voglia. Barcellona, Vienna, Atene, Manchester e di nuovo Atene: qui si è compiuta la vocazione europea del Milan, qui si è consolidato il mito del Milan, definitivamente assurto tra i padri fondatori dell’Europa pallonara, qui ha fatto tappa il viaggio degli eroi di rossonero vestiti. Se si parla di calcio, di tifo, di quell’amore inscalfibile quanto inspiegabile per una maglia, due colori e 11 uomini che corrono dietro ad una palla, allora chiunque condivida questa passione del Diavolo non può non dire grazie a Silvio Berlusconi. Ma al tempo stesso si fa largo una consapevolezza, quella di cui sopra: si è chiusa un’era. Nel nostro calcio non si rintracciano segnali che inducano a suppore che un giorno torneranno i grandi presidenti made in Milano: i Berlusconi ma anche i Moratti, i presidenti tifosi, i presidenti innamorati, quelli che la squadra di calcio è anche una questione di cuore e famiglia. Berlusconi ha poi potuto sfruttare la popolarità conquistata col calcio in altri ambiti, quali la politica, ma è avvenuto in un secondo momento. Fa riflettere, piuttosto, che a sconfiggere, almeno per ora, i presidenti tifosi, made in Milano, è stata, ironia della sorte, l’estremizzazione di quella rivoluzione iniziata in parte proprio da Berlusconi. Il riferimento è agli stipendi sempre più da capogiro pur di battere la concorrenza, alle rose sempre più ampie, alla crescente centralità del marketing e della televisione. In questo Berlusconi ha avuto un ruolo. E in parte lo ha pagato: è il destino degli anticipatori. Oggi la fanno da padrone sceicchi e fondi finanziari. E noi qui a chiederci se il calcio sia bello come un tempo o no. Senza poter smettere di rimirarlo.