
"Io guadagno 1.500 euro di base come stipendio della polizia, ma io mica vivo solo con quelli... perché io con gli “extra” arrivo a guadagnare 4.000 euro al mese. Io arrotondo", si vantava con un amico, intercettato, l’assistente capo dell’Ufficio Immigrazione Alessio Condò. Quegli "extra" se li procurava aggirando le procedure sui permessi a lungo termine per i lavoratori stranieri, approfittando del suo ruolo in Questura e facendosi pagare 500-600 euro per volta con l’intermediazione dei due complici Ruyi Hu e Yovko Slavov Delyanin, conosciuti nel bar di viale Certosa gestito dal primo. Il 4 agosto 2016, Condò fu sospeso da via Fatebenefratelli perché trovato risultato positivo al test della cocaina. E tre mesi dopo furono i colleghi della sezione Anticorruzione della Squadra mobile a metterlo ai domiciliari per corruzione, atti contrari ai doveri d’ufficio, falso ideologico in atto pubblico, accesso illegale al sistema informatico e procurata inosservanza della pena. A 3 anni e mezzo da quel blitz, la Corte di Cassazione ha reso definitiva la condanna a 3 anni e 10 mesi di reclusione, patteggiata in primo grado; gli ermellini hanno annullato con rinvio la sentenza solo nella parte in cui ha disposto l’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni, perché la decisione non è stata adeguatamente spiegata.
"Così facendo – si legge nel verdetto reso noto nei giorni scorsi – è stata integralmente omessa la motivazione che ha portato in concreto i giudici ad applicare la pena accessoria nella sua durata massima, a fronte, peraltro, del riconoscimento di un importante apporto collaborativo del Condò". Sì, perché proprio le dichiarazioni dell’allora assistente capo aiutarono gli uomini della Mobile a smantellare il resto della presunta banda di agenti infedeli: esattamente un anno dopo il primo arresto, infatti, gli investigatori portarono in carcere altri quattro agenti dell’Immigrazione, mentre altri due, all’epoca rispettivamente in servizio nei commissariati Porta Genova e Lorenteggio, finirono ai domiciliari. Il presunto capo, l’ormai ex sovrintendente Domenico Rubino, che nel gennaio 2020 è stato condannato in primo grado a 8 anni e 9 mesi, incassava così tanti soldi dall’attività parallela da potersi permettere (intestandola alla moglie) la prestigiosa Villa Magnaghi a Marcallo con Casone, dimora settecentesca finita sotto sequestro.