Assolto in appello Stefano Binda, ma allora chi ha ucciso Lidia Macchi?

Ripartono da zero le indagini sul delitto del 1987

Stefano Binda in aula a Milano

Stefano Binda in aula a Milano

Milano, 25 luglio 2019 - «Non riesco a formulare un frase con un senso compiuto. Sono contento». Stefano Binda sgrana gli occhi dietro le lenti, si stringe nella giacchetta. Nell’aula della prima Corte d’Assise d’Appello di Milano, immensa e gelida, ha appena ascoltato la voce della presidente Ivana Caputo leggere la sentenza che lo sgrava dell’ergastolo inflittogli dall’Assise di Varese. Assolto con formula piena: per non avere commesso il fatto. Non è lui l’assassino di Lidia Macchi, radiosa studentessa di Varese, non ancora ventunenne, iscritta a giurisprudenza, leader nascente di Comunione e Liberazione.

Massacrata con ventinove coltellate la sera del 5 gennaio 1987, sulla collina del Sass Pinì, nella zona di Cittiglio, luogo di tossici, pattume a cielo aperto, incontri furtivi. Terribile l’accusa per Binda: omicidio volontario aggravato dalla violenza sessuale, dalla crudeltà, dalla minorata difesa della vittima, aggredita di notte, in un luogo solitario. Il massacratore di Lidia Macchi non è quest’uomo che abita a Brebbia, a mezz’ora di macchina da Varese, con la madre e la sorella, 52 anni il mese prossimo, laurea in filosofia, vita segnata, in passato, dalla droga pesante. Era in cella dal 15 gennaio 2016, tre anni e mezzo che nessuno gli restituirà. 

Chi ha quindi ucciso, trucidato Lidia Macchi? L’interrogativo si ripropone dopo oltre 32 anni e cade in un vuoto desolante. Indagini che all’inizio affondano nell’ambiente religioso della vittima, fra i suoi amici. Vengono messi sotto torchio 4 sacerdoti e un laico esponente di spicco del mondo cattolico varesino. Il polverone che si solleva è immenso, interviene l’arcivescovo di Milano.

Fra i religiosi c’è quello che chiamano il «prete biondo»: è l’assistente spirituale dell’oratorio di San Vittore e l’anima del gruppo scout frequentato da Lidia. Si ritrova di fatto e ingiustamente indagato. Poi lo stallo, l’arenarsi delle indagini. Il pm titolare, molti anni dopo, si ritroverà per questo sanzionato dal Csm. Ma l’omicidio Macchi è anche una brutta storia di trascuratezza e incuria. Dall’ufficio corpi di reato di Varese spariscono 11 vetrini con liquido seminale dell’assassino, che esaminati con le nuove tecniche avrebbero potuto portare al suo Dna. Stessa sorte per due vetrini con frammenti di abiti della vittima, la borsa di cuoio, gli stivali semi nuovi regalo del papà per il Natale del 1986. Per anni è deriva. 

Nel novembre 2013 la procura generale di Milano avoca a sé l’inchiesta. Compare una figura, Patrizia Bianchi, amica del cuore di Binda negli anni giovanili, affascinata dalla sua intelligenza e cultura, di lui platonicamente innamorata. In Tv ha sentito che nella borsa di Lidia c’era una poesia di Pavese, la più disperata: «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi». Era il cavallo di battaglia di Stefano, che amava declamarla. E poi quella poesia anonima, titolo «In morte di un’amica», imbucata il 9 gennaio ‘87 a Varese, recapitata alla famiglia Macchi il giorno dopo. Cupe sestine che i familiari prima e gli inquirenti poi attribuiscono all’assassino, perché si parla di notte gelida, cielo stellato, di un «velo strappata» di corpo offeso, velo di tempio strappato» che pare un’allusione alla verginità violata di Lidia. Quando Binda nega di essere l’autore si ritrova indagato. La consulenza grafologica gliela attribuisce. Il 15 gennaio 2016 viene arrestato. Poi la condanna all’ergastolo in primo grado. L’11 luglio scorso il colpo di scena: un misterioso uomo dichiara di essere lui l’autore di quella poesia. Cade il cardine più forte dell’accusa. E Binda ripete: «Non ho ucciso, non ho spedito, non ho fatto arrivare a chicchessia nulla di anonimo». Per la prima volta è stato creduto.

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro