ELVIO
Cronaca

Le zite ’ngalera: troppi stereotipi

Elvio

Giudici

annuale appuntamento scaligero con l’opera barocca riscopre una gemma di quel rigoglioso repertorio noto come opera comica napoletana, che svolse ruolo decisivo nel passaggio dalla paludata opera seria al più articolato teatro musicale del tardo ’700. Li zite ‘ngalera, di Leonardo Vinci. Come si evince subito dal titolo (che tradotto suona “I fidanzati sulla nave“), il testo è in napoletano. Napoletano stretto e arcaico, lingua meravigliosa per freschezza e comunicativa, ma un filo ostico: per chi ascolta ma anche per chi lo esegue. E nel cast, di napoletani manco l’ombra: per chi quella splendida lingua (detesto il termine dialetto: è una lingua a tutti gli effetti) la mastica un po’, l’effetto è parecchio straniante, ma pazienza. La cosa grave è che lo spettacolo perde una splendida occasione di fare del vero teatro. Si tratta non di un’opera con inserti parlati, bensì di una commedia con inserti musicali (lo dimostrò il meraviglioso, scatenato spettacolo di Roberto De Simone, a Firenze nel ’79): e una volta di più, si confermerebbe come il teatro barocco, con le sue trame aggrovigliate, le categorie sessuali che più “fluide” non potrebbero essere (una fanciulla si veste da uomo per inseguire un innamorato fedifrago impersonato da una donna, due servitori con la voce di falsettisti, una vecchia tenutaria di locanda impersonata da un tenore) sia il teatro più moderno che c’è.

Ma si dovrebbe farlo alla Almodóvar prima maniera, o stile soap-opera tipo La casa de las Flores (imprescindibile!), folle girandola di situazioni assurde con categorie sessuali in libertà e divertentissime. Fai una sfilata di statuine di Capodimonte atteggiate con saltelli, braccia sui fianchi, manine svolazzanti, corsette e giravolte: la regia di Leo Muscato, entro quadretti da vecchia Napoli (36 cambi di scena, d’accordo, ma che miseria quegli ambientini che scorrono), tutta finta e stereotipata vivacità, reitera per tre noiose ore i vecchi gesti cari alle platee provinciali di quarant’anni fa. Rimedia un po’ la direzione spigliata di Andrea Marcon alla guida di un’orchestra che suona strumenti d’epoca: ma il cast è purtroppo diseguale. Accanto alle splendide Francesca Aspromonte (amante fedifrago e fuggitivo) e Chiara Amarù (fanciulla travestita da maschiaccio), i due controtenori Raffaele Pe e Filippo Mineccia cantano abbastanza bene ma non fanno capire una parola (e certo: lodigiano uno, toscano l’altro…), Francesca Pia Vitale canta male, Alberto Allegrezza nei panni della vecchia riduce tutto alla frusta macchietta, e gli altri abbozzano.