"Io, calzolaio senza eredi. Insegnerei gratis"

Antonio Ficocelli, uno degli ultimi artigiani della scarpa: ho iniziato a 12 anni a Taranto, poi l’approdo a Milano. Nessuno ci affittava casa

Antonio Ficocelli nel suo laboratorio

Antonio Ficocelli nel suo laboratorio

Milano - Una storia d’amore che dura da più di ottant’anni, quella tra Antonio e le scarpe. Antonio Ficocelli, classe 1936, è uno dei pochi artigiani calzolai rimasti a Milano e ha la sua bottega lungo il Naviglio, in Ripa di porta Ticinese. Originario di San Giorgio Ionico, in provincia di Taranto, Antonio ha iniziato a imparare l’arte già alla tenera età di quattro anni.

"Quando mia mamma andava in campagna a lavorare la terra – racconta – io venivo “parcheggiato“ nella bottega di un vicino di casa. E già così piccolo ho cominciato a fare il calzolaio. A 12 anni ero capace di fare scarpe su misura. Ma ero un ragazzino ambizioso e mi volevo migliorare. Così ho deciso di andare a cercare fortuna a Taranto. Ci andavo in bici, tutti i giorni, quindici chilometri ad andare e quindici a tornare. Ma la stanchezza non la sentivo – prosegue – tanta era la voglia di imparare questo mestiere. Finalmente a Taranto ho trovato quello che cercavo: il maestro Matteo Gentile che faceva scarpe da donna e da uomo. Con lui sono stato fino ai miei vent’anni e ho perfezionato la mia professionalità. Poi sono andato a fare il militare in aeronautica a Brescia. Ero addetto al rifornimento aerei".

Anche in caserma c’era il calzolaio, e Antonio non ha resistito alla tentazione: dopo il lavoro anziché godersi la libera uscita andava a lavorare in calzoleria per 30mila lire al mese. "Quei soldi li mettevo in banca – prosegue – perché sapevo che mi sarebbero serviti per realizzare il mio sogno nel cassetto, quello di aprire una bottega tutta mia. Finito il militare sono tornato al mio paese e qui ho finalmente coronato il mio sogno, senza chiedere soldi a mio papà che aveva lavorato inizialmente come contadino poi come operaio e non aveva certo soldi da darmi per avviare la mia attività. Avevo 22 anni e mi sentivo un ragazzo fortunato e realizzato". Il ragazzo qualche anno dopo si è sposato e ha avuto una figlia. E il lavoro non mancava.

" Facevo 12 paia di scarpe nuove a settimana – racconta – ero soddisfatto, ma volevo di più, volevo crescere ancora. Allora comprai un terreno vicino perché la mia intenzione era quella di aprire una piccola fabbrica. E sono riuscito a realizzare anche questo sogno. Mi alzavo la mattina alle tre e lavoravo fino alle otto di sera, ininterrottamente. Il mio successo dava fastidio in paese. C’era tanta invidia e si erano creati troppi pettegolezzi. Un giorno ho deciso di fare un viaggio con mia moglie per staccare la spina – prosegue – e l’ho portata a Brescia, dove ho fatto il militare. Ci siamo fermati a Milano, a trovare una zia che abitava sul Naviglio e una sera, passeggiando lungo il canale, mia moglie mi dice: “Antonio, è qui che dobbiamo vivere noi“. E così è stato. Non siamo poi tornati giù. Ho trovato una piccola bottega che inizialmente ho preso in affitto e poi ho comprato. E abbiamo cercato casa anche se con qualche difficoltà perché ai tempi ai “terroni” non si affittavano case. Ma alla fine l’abbiamo trovata proprio sopra la calzoleria. È proprio vero che la fortuna aiuta gli audaci. Era il 1970 e da allora mi sono messo a lavorare notte e giorno per mantenere la mia famiglia anche perché qui a Milano la vita è molto più cara e noi nel frattempo abbiamo avuto anche altri due figli".

Il lavoro andava a gonfie vele, e i sacrifici sono stati ripagati. "Io dico sempre: “Basta saper lavorare ed essere onesto con la gente e si può andare in paradiso“", racconta Antonio orgoglioso. "Dai miei figli ho sempre preteso un diploma e un mestiere. E loro hanno seguito i miei insegnamenti. Si sono tutti e tre laureati e hanno degli ottimi posti di lavoro. Sono molto fiero di loro, anche se in cuor mio ho sempre segretamente sperato che almeno uno rimanesse a lavorare con me in bottega. Vorrei insegnare a qualcuno quest’arte perché non voglio portarmela nella tomba senza lasciarla a nessuno. Artigiani come me ne sono rimasti pochissimi ed è un vero peccato che questo lavoro si estingua. Vorrei donare la mia arte a chi desidera impararla, non voglio soldi, vorrei offrirgliela gratuitamente. Questo ora è il mio desiderio più grande. Nella mia vita ho realizzato tutti i miei sogni – conclude – ora spero che anche questo si possa avverare".

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