Rapper pentito: "A 12 anni la mia prima rapina". Poi la comunità: addio gang, sono salvo

La testimonianza di un ragazzo appena maggiorenne: "Mi sentivo un leone, non lo facevo per soldi"

 frame di un video del rapper Simba La Rue

frame di un video del rapper Simba La Rue

«Ho iniziato a 12 anni". Dopo l’arresto due giorni fa dei trapper Baby Gang e Simba La Rue, coinvolti assieme a nove ragazzi nella rissa scoppiata lo scorso 3 luglio a Milano (in cui sono rimasti gambizzati due senegalesi in corso Como) si torna a parlare dell’incubo bande sotto la Madonnina. Anche il neomaggiorenne Paolo – nome di fantasia – ha fatto parte di una gang. Non è stato spinto da motivi economici o ispirato dai versi di chissà quale genere musicale. La sua devianza, piuttosto, è stata alimentata da una voglia di rivalsa. Il crimine (pestaggi, rapine e spaccio) lo ha fatto sentire onnipotente e per la prima volta valorizzato dai suoi pari. A fermare la sua deriva è stato un controllo delle forze dell’ordine che lo ha fatto finire per l’ultimo anno e mezzo alla "Casa del Giovane" di Pavia sotto la guida di Simone Feder, coordinatore dell’Area Giovani e dipendenze. "Per fortuna qualcuno mi ha fermato. Se non fossi andato in comunità ora sarei in carcere e non avrei avuto futuro", dice Paolo.

Quando è entrato nella gang?

"Per me era il gruppo dei miei amici. Ho iniziato a frequentarli a 12 anni, ero il più piccolo fra una quindicina di ragazzi, italiani e maghrebini, di cui il più grande aveva 22 anni. Alcuni li conoscevo dall’infanzia. Il rito di iniziazione è stato il mio primo reato: sono andato da un ragazzino e gli ho detto di darmi quello che aveva. Il bottino: cinquanta euro e un pacchetto di sigarette. Non sarei mai riuscito a fare nulla di simile da solo, ma con il gruppo ero un leone".

Poi cosa è successo?

"Da allora sono seguiti numerosi altri episodi soprattutto nel centro di Milano. Niente di organizzato al mattino, agivamo se si presentava l’occasione. Bastava sfoggiare capi di marca o un bracciale d’oro per diventare vittime delle nostre rapine. Nel nostro mirino erano ragazzi fra 15 e 20 anni: per distrarli prima di rapinarli chiedevamo la sigaretta. Chi reagiva, anche solo con una parola sbagliata, veniva malmenato".

E la scuola?

"Già alle medie ci andavo due o tre volte alla settimana. Quando sono passato a un istituto professionale praticamente non ho mai messo piede in aula ma andavo sempre di fronte all’ingresso perché col tempo oltre ad aver acquisito più potere dentro il gruppo ho cominciato a spacciare. Hashish, marijuana, se capitava cocaina. Guadagnavo 3mila euro al mese".

La sua famiglia era in difficoltà economica?

"I miei genitori appartengono alla buona borghesia milanese e non hanno alcun problema finanziario. Non che i soldi facili non mi facessero comodo ma non era il motivo principale per i reati. Quello che mi faceva stare bene era ottenere l’apprezzamento del gruppo. Il contrario di quello che era successo alle elementari quando venivo preso in giro dagli altri compagni".

Come è finito in comunità?

"Sono stato fermato durante un controllo dalle forze dell’ordine, mi hanno trovato addosso dell’hashish e sono stato denunciato. Sono finito così alla Casa del Giovane di Pavia. All’inizio pensavo soltanto che fosse una punizione. Poi ho cambiato prospettiva. Stare lontano da gruppo è stato fondamentale per capire tutti i miei sbagli. Mi sono sentito accolto e ho cominciato a fare qualcosa che non avevo mai fatto: pensare al mio futuro. Mi sono messo a studiare, iscrivendomi all’alberghiero per diventare chef"-

Non ha mai più incrociato gli altri ragazzi della banda?

"Sono appena tornato a casa dopo un anno e mezzo in comunità. Alcuni li incontro nel quartiere. Qualcuno mi ha detto “bravo“ perché sono riuscito a cambiare strada e a tenermi lontano dai guai: vorrebbe fare lo stesso ma pensa di non avere alternativa".

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