
Il caso Pifferi e quella massima di Brecht
Sarno*
Si è concluso, secondo un copione già scritto, il processo ad Alessia Pifferi accusata dell’omicidio di sua figlia, Diana: il popolo italiano (rappresentato in Corte di Assise dai giudici popolari) una
decisione l’aveva già presa.
L’avvocata che ha assistito questa donna è stata subito criticata, poi indagata a processo in corso, per l’ipotesi di aver tentato di alterare l’osservazione psichiatrica,
contribuendo a toglierle autorevolezza. In ultimo, è stata insultata e minacciata.
Eppure, la linea di difesa non era quella della infermità mentale ma un argomento tecnico coerente con logica e prove: morte come conseguenza non voluta di altro reato non essendovi evidenza che l’intenzione fosse l’uccisione. Scellerata, anaffettiva, libertina: il giudizio morale può essere molto
severo e vale come parametro nella misurazione della pena ma solo dopo avere attribuito la
responsabilità per fatti penalmente rimproverabili correttamente qualificati secondo la legge…e
quella di Diana è una morte conseguente all’abbandono, fatto spregevole non v’è dubbio, un delitto
secondo il nostro codice penale. Ma il proponimento di uccidere da cosa si ricava? Colpevole, sì, ma di un crimine diverso dall’omicidio volontario. La tesi, giuridicamente sensata, non ha convinto “giurati” impressionati dal fatto e dalla crudezza
dei dettagli. Alla fine, ha prevalso una giustizia più da Stato Etico che da Stato di Diritto. La sentenza merita, comunque, rispetto e se non è condivisa si appella. Indigna – invece – l’ondata di odio riversata sul difensore dai “leoni da tastiera” spostando l’asse dal mondo delle idee e del pensiero a quello delle tifoserie: sappiano che per tutti gli avvocati vale il pensiero di Bertold Brecht: “abbiamo scelto di sedere dalla parte del torto perché da quella della ragione i posti erano tutti occupati”.
*Avvocato