REDAZIONE MILANO

Quando sono diventato grande. La Milano di Fabio Canino

L’attore e scrittore toscano racconta il suo rapporto con il capoluogo lombardo dove è stato lanciato nel mondo della televisione. Nel suo libro che uscirà a gennaio lancia la provocazione di una società in crisi salvata dalla «pink economy» di MASSIMILIANO CHIAVARONE

Fabio Canino

Milano, 13 dicembre 2015 - «A Milano l’affetto non te lo dimostrano a parole, ma con i fatti». Lo racconta Fabio Canino, personaggio tv e scrittore.

La prima dimostrazione d’affetto che Milano le ha dato? «La notte di San Silvestro del 1983. Ero venuto a Milano per festeggiarla invitato da amici, ma contavo di trasferirmici. E proprio quella sera incontrai una persona che mi disse che per il primo periodo potevo a stare a casa sua. Fu il buon anno più bello di tutta la mia vita».

Della serie vado a vivere da solo? «Sì, con tutto nuovo, città nuova perché lasciavo Firenze che mi stava un po’ stretta, casa nuova, via nuova».

E’ inevitabile chiederle: la strada milanese che preferisce? «Proprio quella che mi ha accolto appena arrivato: viale Vittorio Veneto. Abitavo al civico 24, dove si trova la famosa Casa della Fontana, un bellissimo esempio di architettura italiana degli anni ’30 con la struttura a terrazzamenti e giardini pensili. Mi iscrissi al corso di recitazione del Centro Teatro Attivo e mi godevo il periodo senza farmi domande».

Che vuol dire? «Lavoravo, uscivo, scoprivo Milano. E restavo sempre in zona. In viale Vittorio Veneto ci abitai per un anno, poi presi in affitto un piccolo appartamento in via Settala. Erano periodi in cui dovevo stringere la cinghia, mi cibavo di michette e tonno, ma ero confortato dall’interesse delle signore del quartiere. Ogni volta che mi vedevano per strada mi fermavano, si informavano su di me e mi davano ricette di piatti veloci e nutrienti».

Insomma l’avevano adottato? «In un certo senso sì. Intanto esploravo la zona. Non era proprio raccomandabile in quegli anni, già allora era multietnica ma con presenza di microcriminalità. Soprattutto la notte, passando per viale Tunisia, via Panfilo Castaldi, via Settala, poteva essere rischioso. Eppure proprio il viale Vittorio Veneto, già allora mi colpiva per la sua bellezza. Offre una promenade meravigliosa, mi ricorda il viale che circonda les Tuileries a Parigi. Meno male ora la situazione è cambiata grazie anche al rifacimento di Piazza Oberdan. Vedere questo lungo viale arricchito su un lato da una scalinata magnifica che porta al parco è un capolavoro».

Intanto cominciava a lavorare? «Sì, il mio debutto teatrale lo feci a Firenze in uno spettacolo con la regia di Carlo Cecchi, il mio training, però, si svolse a Milano, dove tra gli altri lavori, feci anche il mimo alla Scala. E questa città mi ha dato la chance della tv. Qui infatti dopo aver presentato una convention, mi proposero di condurre un programma per Junior tv, un circuito dedicato ai più piccoli. Era il 1985. Ci lavorai per tre anni in uno show in cui interpretavo il personaggio del Professor Caninski, che voleva avvicinare i bambini ai temi ambientali. Fu una grande palestra».

E così dopo aver imparato l’arte disse addio a Milano? «In un certo senso sì, perché poi, era la fine degli anni ’90, cominciai a lavorare per la Rai e soprattutto per le Iene su Italia 1. Ma mi dedicai anche al teatro, firmando la versione italiana di due pieces molto belle: «Making porn» di Ronnie Larsen e «Amici, complici, amanti» di Harvey Fierstein. In quel periodo ero soprattutto a Roma, ma il ritorno a Milano era nell’aria».

E quando si verificò? «Con Gay tv, il canale a tematica Lgbt di Massimo Scolari. Mi offrirono la conduzione di alcuni programmi. Registravamo in uno studio vicino al teatro Zelig, in viale Monza. Erano i primi anni del 2000, fu un periodo «pazzesco», divertente, stimolante, pieno di creatività. Milano è diventata il mio luogo del cuore, è, per me, sinonimo di libertà, non mi ha mai tarpato le ali».

Anche sulle tematiche Lgbt? «Su questo Milano è un po’ uguale alle altre città. Manca una visione di insieme, i vari gruppi coltivano ognuno il proprio orticello, senza unire le forze, per questo le azioni per ottenere diritti, diventano spesso rivendicazioni poco incisive. Io però una provazione la voglio fare».

Qual è? «Che possa diventare realtà quello che racconto nel mio prossimo libro. Si intitola «Rainbow Republic» (Mondadori) e uscirà a gennaio. E’ un romanzo ambientato in Grecia in cui immagino che il paese ellenico venga salvato dal dissesto economico e dalla crisi, proprio grazie alla pink economy, cioè le attività economiche di persone Lgbt. E se facessimo lo stesso in Italia partendo da Milano?» di MASSIMILIANO CHIAVARONE mchiavarone@gmail.com