
Emiliano Ronchi, nome d’arte Emi lo Zio, manager di alcuni dei rapper più quotati
Milano, 20 duicembre 2019 - Emi Lo Zio si difende. Non ci sta a passare come uno che deride i ghisa e li insulta pubblicamente diffondendo un video di offese on line. Qualche giorno fa, il rapper Emiliano Ronchi, storico esponente della Dogo Band, è stato condannato in primo grado a 800 euro di multa per diffamazione e a risarcire con 500 euro l’agente della polizia locale che avrebbe preso di mira il 14 novembre 2017, riprendendolo in un filmato poi postato su Facebook e definendolo "infame di m., vergogna del popolo italiano, cornuto figlio di p.". Il diretto interessato nega di aver realizzato quel video tantomeno di averlo diffuso sul web: "Ritengo che lo stesso sia stato diffuso attraverso un falso profilo Facebook che utilizzava il mio nome d’arte", l’incipit della lettera che Ronchi ha inviato al giudice il 20 novembre scorso, prima che venisse pronunciata la sentenza. "Purtroppo – prosegue la missiva – in passato è successo diverse volte che sui social network venissero aperti profili fittiziamente riferiti alla mia persona. Proprio per evitare tali spiacevoli equivoci, sono stato costretto a richiedere ai gestori dei principali social network (Facebook e Instagram) la certificazione del mio account attraverso il rilascio del cosiddetto “badge di verifica“".
La versione dell’imputato non ha evidentemente convinto il giudice, che il 12 dicembre lo ha condannato. "In attesa di leggere le motivazioni della sentenza – spiega l’avvocato di Ronchi, Niccolò Vecchioni – riteniamo doveroso segnalare che la condanna appare in contrasto con i principi giurisprudenziali che regolano la valutazione della prova in materia di diffamazione telematica". Secondo il legale, "non si è provveduto a svolgere nessun accertamento tecnico finalizzato all’individuazione dell’indirizzo IP di provenienza del post diffamatorio e, conseguentemente, non è mai stato identificato il titolare della connessione internet utilizzata per commettere il reato". Si tratta "di una verifica imprescindibile – sostiene Vecchioni – per l’affermazione di colpevolezza, specie se si considera che nel corso del processo la difesa ha dimostrato che quel post non era stato pubblicato attraverso l’account Facebook ufficiale del signor Ronchi". Che proporrà appello contro il verdetto di primo grado.