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Delitto Procacci, il giudizio della Cassazione. Fu proprio lui a massacrare la sorella

Confermata la condanna a 30 anni dell’uomo estradato dal Libano di MARIO CONSANI

Delitto Procacci, anche per la Cassazione il colpevole è il fratello della donna

Milano, 22 novembre 2015 - Anche per la Cassazione l’assassino è lui. Fu Pasquale Procacci, dunque, a uccidere sei anni fa la sorella Maria Teresa. Lo fece quasi certamente per i soldi. I due avevano ereditato dal padre un bel patrimonio in denaro e immobili. Era stato Pasquale a gestirlo per tanti anni. Ma negli ultimi tempi la sorella era diventata un po’ troppo “generosa” con gli amici e un po’ troppo severa con i familiari, lasciando capire che prima o poi avrebbe dato una bella parte dei suoi averi in beneficenza. Pasquale aveva capito il messaggio e agito di conseguenza. Maria Teresa, vedova di 69 anni, una sera di aprile del 2009 venne ritrovata cadavere nella sua auto abbandonata in viale Sarca, seminuda, il cranio sfondato. A incastrare il killer, anche per la Suprema Corte, un minuscolo pezzetto di lattice sporco di sangue e del dna di fratello e sorella.

È il frammento di un guanto ritrovato appoggiato al tascone della portiera destra. Guanto indossato dall’assassino, secondo l’accusa. No: usato in precedenza per fare benzina all’auto della sorella, è sempre stata la difesa dell’imputato. Tutti i processi celebrati contro Pasquale sono ruotati intorno a quel minuscolo frammento. Condannato in primo grado, assolto in appello, assoluzione annullata da un primo giudizio di Cassazione. Poi il processo d’appello-bis con la nuova condanna a 30 anni di carcere per il 70enne Pasquale.

E proprio in quella sede, per la prima volta, la Corte presieduta da Sergio Silocchi, guardando e riguardando gli ingrandimenti delle foto scattate dentro l’auto del delitto, si accorge di un particolare che cancella ogni dubbio. Studiando una delle cento immagini, appare evidente che quel frammento di lattice è trasparente e che sotto, dunque direttamente sul tascone della portiera, c’è una minuscola goccia di sangue. È la prova certa che quel pezzetto è finito lì sopra quando il sangue già c’era e quindi dopo l’omicidio, non prima come sosteneva Pasquale. L’assassino ha indossato quel guanto e ci ha lasciato l’impronta del suo dna, prima che il famoso pezzetto si staccasse. E quell’assassino è il fratello.

La Suprema Corte ha riconosciuto la correttezza delle conclusioni cui erano giunti i giudici milanesi «con un argomentare intrinsecamente coerente, fondato su di un approfondito studio delle fotografie a colori e dei relativi ingrandimenti ad opera della polizia scientifica». E dunque ora la condanna per Pasquale è definitiva. Trent’ anni, come un ergastolo alla sua età. E dev’essere stato per questo che nel maggio di un anno fa, il giorno stesso in cui la Corte d’assise d’appello-bis pronunciò il suo verdetto di colpevolezza, Procacci svanì nel nulla con identità e documenti falsi, raggiungendo il Libano dopo un breve passaggio in Francia.

Durò meno di due settimane la sua latitanza, poi venne individuato e arrestato. Fu lui, allora, di fronte alla prospettiva di marcire in un carcere mediorientale, il primo a chiedere di essere riconsegnato all’Italia. Dopo tre mesi sbarcò a Roma, smagrito e invecchiato. La sua sorte processuale era a quel punto segnata. Il verdetto di Cassazione, quasi scontato: «Pluralità di precisi elementi indiziari oggettivamente esistenti, tutti convergenti, nella loro gravità, verso la persona del colpevole, prima analizzati nel loro specifico ed autonomo significato individuale, poi, nella loro reciproca interferenza». mario.consani@ilgiorno.net