
Michele De Lucchi, architetto internazionale
Milano, 13 aprile 2018 - «Dobbiamo tornare a riflettere sul silenzio inteso come vuoto, ignoto, e non averne paura, perché apre riflessioni su argomenti molto concreti collegati all’architettura e al futuro delle nostre città e delle nostre vite». Michele De Lucchi, architetto internazionale, non ha bisogno di presentazioni. È conosciuto per avere realizzato la lampada che ha venduto più esemplari nel mondo, la Tolomeo prodotta da Artemide dal 1987. E non solo. Ora nella sua veste di direttore di Domus, sollecita una riflessione interessante nella settimana più caotica e meno silenziosa dell’anno a Milano con un evento del Fuorisalone, lunedì sera, alle 22, al Planetario. Ne discuterà con Fabio Peri, direttore scientifico del Civico Planetario e Massimo Recalcati, psicoanalista.
De Lucchi è una scelta coraggiosa...
«Ci pareva interessante affrontare l’argomento sul silenzio declinato nelle diverse materie, architettura, psicologia, con Recalcati che parla del silenzio dentro l’uomo e la mente e Pieri che parla di astronomia e universo. Vuoto, silenzio...il richiamo di questa straordinaria emozione non può essere ignorato, perciò lo proiettiamo su nostri oggetti. Sono gli oggetti che fanno lo spazio e non viceversa. Continuiamo a riempire questo mondo spesso con cose senza senso. La cosa a cui non ci riferiamo mai come architetti sono i progetti non fatti per costruire, ma per svuotare. Bisogna avere il coraggio di buttare giù, abbattere le brutture urbanistiche».
Anche a Milano? Che cosa demolirebbe?
«Metterei a posto le periferie milanesi non costruendoci sopra le parti degradate ma buttando giù quello che non va. Senza danneggiare, ovviamente, i proprietari. Ma restituendo loro dignità nell’abitare».
Quindi non solo «ricucire» le periferie, come dice Renzo Piano per il Giambellino...
«Ci vuole un progetto più complessivo che abbia il coraggio di affrontare il nodo cruciale che ho detto».
Anche gli architetti sbagliano. Ha compiuto errori di cui si è pentito?
«Sbagliare fa parte delle natura delle cose e accettare la conseguenza degli sbagli certe volte aiuta a rimediare e a migliorare».
Le maggiori soddisfazioni?
«Le cose che più ho amato fare sono quelle che hanno un più alto valore simbolico e rappresentativo. Un appartamento perfettamente costruito e registrato in termini di attrezzature delle cucine e bagni e aria condizionata in pochi anni diventa vecchio e non più aggiornato rispetto agli standard. Invece il valore simbolico di alcune opere che viene attribuito da una comunità dura nel tempo. Ecco, quando riesco in questa impresa sono felice».
Come il Pavilion Unicredit in piazza Gae Aulenti?
«Il Pavilion è ancora un oggetto che non ha ancora espresso il suo potenziale. È molto sofisticato e ha bisogno di essere usato con più vitalità, coraggio, con più senso del rischio».
Lei ha sviluppato numerosi progetti di architettura per committenze private e pubbliche in Georgia, memorabile il Ponte della Pace a Tbilisi...
«Quel ponte mi ha regalato grandi soddisfazioni. I georgiani l’hanno subito sentito come proprio, ha colpito la loro immaginazione per la forma e il contesto in cui è stato collocato. Dato che non sono capace di scolpire grandi figure o colombe, l’ho disegnato così e ha funzionato».
Fra pochi giorni si apre il Salone del Mobile, qual è il suo giudizio?
«È strepitoso, ha un potenziale fortissimo che dovrebbe sviluppare ancora di più cambiando anche il nome. Non ha più a che fare con l’idea del fare le case o rifare gli uffici. Ha un valore di indagine dell’antropologia del mondo che cambia ogni anno manifestata da produttori, designer. Il Salone del Mobile è un evento culturale ma soprattutto è una tappa fondamentale dell’esplorazione del mondo dell’abitare in generale nel pianeta in cui viviamo».