Dopo il laboratorio, in classe la 2E legge l’etichetta con il made in di ciò che indossa. Sono presi in considerazione scarpe, magliette, felpe, jeans e giubbotti, praticamente la nostra divisa di tutti i giorni. Partecipano anche le prof. Premessa chiara a tutti: nessuno giudica, né deve sentirsi giudicato. Siamo tutti sulla stessa barca: compriamo tutti nelle grandi catene della fast fashion, che conosciamo perché presenti ovunque, comode e a prezzi accessibili. Ci bombardano di novità di continuo.
Si va in bagno a leggere le etichette o a decifrare le scritte sotto la suola delle scarpe. Si apre un mondo, nel verso senso della parola! Bangladesh, Cina, Cambogia, Vietnam, Thailandia, Indonesia, Turchia… I paesi più vicini sono Spagna e Portogallo, poca roba. I ragazzi non sanno ancora collocarli sulla carta: dove diavolo è il Pakistan?
Ale osserva qualcosa di interessante: "Sa, prof, l’altro giorno siamo andati alla Scala con la scuola e ci siamo vestiti diversi". "Diversi come?" "Beh, meglio… sa, per andare alla Scala.... “Prof, ero tutto made in Italy!" Vestiti sicuramente più costosi, che Ale probabilmente non butterà via a fine stagione avendoli indossati poche volte. Prodotti in Italia - si spera - da operai pagati il giusto, con le garanzie di sicurezza e rispetto dei diritti e dell’ambiente.