
Fino a due mesi fa avevo affrontato l’influenza con spremute d’arancia e tachipirina. Ma dal 2 aprile, dopo che l’ambulanza in cinque minuti mi ha portato (con 41 di febbre, l’affanno e in pieno stato confusionale) al pronto soccorso dell’Istituto Città Studi e i medici mi hanno gelato con una sola parola (“Covid”), tutto è cambiato. Perché quando poi ti ritrovi in un letto della terapia intensiva e manca il fiato è la vita che cambia, in un istante. Non c’è tempo per pensare, devi respirare. Ogni attimo sembra un’eternità. Ma non vuoi che passi. Perché temi sia l’ultimo. Ogni respiro è una salita e sai che non puoi affrontarla al massimo delle forze. E allora si insinua anche un altro subdolo germe che in 51 anni avevo già incontrato: il panico. Ma questa volta è diverso.
È terrore: brividi, sudori freddi, senso di soffocamento. Distrarsi può essere fatale, bisogna cercare di respirare. È l’istinto di sopravvivenza, il voler aggrapparsi alla vita, quando pure affiora l’idea di non farcela. Flash, nulla più, ma dirompenti per l’energia che sprigionavano: mia moglie Isabella, mio figlio Riccardo, mia sorella e mio fratello, gli amici, i colleghi. Frammenti di vita mi scorrevano davanti come in un frullatore impazzito.
Quando ho avuto i primi problemi respiratori, con la testa ingabbiata nell’infernale casco “Cpap”, mi son tenuto stretto anche quel pulsante accanto al letto per chiedere aiuto agli infermieri del reparto di sub-intensiva. Quando arrivavano sembrava il Settimo Cavalleggeri del generale Custer, anche se io ho sempre tifato per gli indiani. Il solo vederli squarciava il velo dell’ansia e spalancava quello della fiducia. Erano bardati e sudati sotto quegli scafandri, guardavo solo i loro occhi. Mi bastava. Alcuni giorni, soprattutto nei quattro trascorsi in terapia intensiva, ho avuto paura. Dieci di febbre alta (compresi quelli prima del ricovero), sei con la testa infilata nel casco, tre settimane attaccato all‘ossigeno, una mezza dozzina di pasticche alle 8, altrettante alle 20.
E ancora le flebo, i dolorosi prelievi alle 5 del mattino, le radiografie al torace, fin quando il virus ha smesso di devastare i polmoni. E poi i due tamponi negativi, il pianto liberatorio, la fine dell’incubo dopo 26 giorni, molti dei quali trascorsi in stanza con due signori anziani e sofferenti. Abbiamo condiviso quel tempo incerto che ci ha segnati, la pastina e le flebo. Ma pure lacrime e sangue. Però con me c’erano sempre e soprattutto Isabella e Riccardo, i miei angeli. Solo loro volevo sentire nei momenti peggiori, tranne quando non ce la facevo proprio: o parlavo o respiravo. Ma bastavano le loro voci, anche per un attimo, a slanciare il sistema immunitario, sferzare i polmoni e mettere le ali al cuore…Una cosa è certa. Con questo subdolo nemico non si scherza. Però da questa pandemia dovremmo tutti aver imparato qualcosa. Dovremmo aver riscoperto la nostra casa, ad esempio.
Io nella mia ci sto benissimo, circondato dall’amore della mia famiglia, con i libri, le foto, gli oggetti che attivano la memoria. Soprattutto dovremmo aver rivalutato il valore del tempo, che dà senso ai nostri giorni. Il tempo che non fa sconti a nessuno perché non torna più. Il tempo che si può utilizzare anche per gli altri raddoppiando la soddisfazione, nostra e quella delle persone a cui lo dedichiamo. Ho ricevuto tanti messaggi sul cellulare e sui social. Nei momenti bui li ho riletti più volte, perché mi infondevano tenerezza e una forza titanica. Non lo dimenticherò.
La vita è un attimo, questo ho capito ancor di più quando non riuscivo a respirare. Ma un attimo possiamo renderlo eterno, se amiamo la vita negli occhi e nel cuore degli altri. Anche semplicemente con un pensiero di poche parole. Perché non ci si salva mai da soli.