
La manifestazione del Pride a Milano, il 28 giugno, per i diritti arcobaleno
BRESCIA – Storia di un percorso a ostacoli. Per vedersi riconosciuto il diritto di essere mamme, anche se non biologiche. Mamme ‘intenzionali’ in una coppia che ha generato un figlio, è famiglia a tutti gli effetti nei registri dello stato civile. Ma manca sempre un pezzetto per l’agognata ‘normalità’. È la storia di Chiara ed Elisa – nomi di fantasia – 36 e 40 anni, di Milano. Da quattro anni mamme di una bimba. A partorire, alla clinica Mangiagalli in pieno Covid, è stata Chiara. La moglie – le due sono sposate dal 2020 – è una delle genitrici rimaste fuori dal congedo parentale per padri dell’Inps, i dieci giorni retribuiti al cento per cento. E che poi tramite la Cgil e l’associazione Lenford, la quale sostiene le famiglie arcobaleno, hanno intentato una causa collettiva contro l’ente accusandolo di discriminazione e hanno vinto, sia in primo grado, a Bergamo, sia in secondo, a Brescia. Con il suggello della Corte costituzionale che ha bollato di incostituzionalità l’articolo 27 del Dl 151/2001 il quale di fatto escludeva dal beneficio la seconda mamma lavoratrice in un coppia di madri.
“Subito dopo la nascita della bambina mi ero collegata al portale Inps per presentare la domanda ma ho scoperto che non potevo inserire il mio codice fiscale: il sistema era predisposto solo per codici fiscali maschili – racconta Elisa –. Io me la sono cavata con dei permessi speciali dall’azienda per cui lavoro, una società grande e avviata che mi è venuta incontro, dunque non ne ho risentito. Ma altre persone non nella mia condizione non l’hanno potuto fare. E non è giusto. Il riconoscimento dei congedi alle mamme intenzionali è un piccolo passo di civiltà”.
Diventare mamme per Chiara ed Elisa ha comportato una lotta costante. “La nostra famiglia è stata a lungo in bilico, nelle mani di uno Stato che poteva da un momento all’altro non riconoscerci come tale. Per registrare mia figlia siamo dovute andare a Crema, l’unico Comune che ci permettesse di farlo. A Milano all’epoca era impossibile. L’atto è stato recepito solo molto dopo e per tanto tempo abbiamo temuto qualche ricorso, qualche intoppo che cancellasse la registrazione”.
Ostacoli, muri da abbattere. Ansia. E ipocrisia. “A Milano però quando abbiamo iscritto la bambina al nido per prenotare il posto il Comune ha voluto la Ral mia e di mia moglie. L’iscrizione all’anagrafe no, quella ce la negavano. Un paradosso. Spesso abbiamo pensato di scappare all’estero. Solo da poco siamo più tranquille. E ci riteniamo fortunate rispetto alle coppie di padri. Loro, genitori grazie alla maternità surrogata, in Italia sono dei fuorilegge da perseguire. Abbiamo amici con figli bloccati all’estero”.