di Mariachiara Rossi
"Noi portiamo in scena un linguaggio duro, uno spettacolo che racconta di violenza, tutto in dialetto, con attori fortissimi dotati di una presenza scenica straordinaria, quasi animalesca perché quello che raccontano è legato alla loro biografia, non esiste una quarta parete. Io spero che dietro questa esperienza
si intraveda una possibilità di rinnovamento per il teatro e un nuovo linguaggio espressivo in grado di superare l’autoreferenzialità". Valentina Esposito, drammaturga e regista romana, rivela tutta l’emozione di chi è consapevole che questa settimana al teatro Oscar di Milano si apre un capitolo nuovo per la recitazione. A esibirsi sarà il Factory Fort Apache Cinema Teatro, l’unica compagnia stabile in Italia formata da attori ex detenuti e detenuti in misura alternativa, da lei fondata nel 2014, che debutta per la prima volta stasera in un circuito professionale, con lo spettacolo “Famiglia”.
Come nasce il suo teatro politico-sociale?
"Poco più che ventenne ho avuto la possibilità di lavorare nel carcere di Rebibbia-Nuovo complesso, nel reparto di alta sicurezza e in quello lunghe pene e reclusione. Il carcere è un luogo di sofferenza, pieno di conflitti e noi per loro rappresentiamo una possibilità, ricreiamo le condizioni per rimetterli in contatto con l’esterno e ricostruiamo le relazioni affettive che la detenzione ha spezzato. Usiamo la recitazione come strumento di revisione del dolore e approcciando l’arte come esercizio spirituale; si trasmette loro la tecnica. In questo modo abbiamo scoperto talenti che non avrebbero avuto modo di mettere in pratica le loro doti, e con il mio gruppo di lavoro, in procinto di essere dimesso, ho formato una struttura esterna al carcere che potesse accoglierli anche una volta fuori per continuare il percorso. Ora la compagnia si compone in totale di 25 attori, tutti stipendiati ovviamente, anche perche l’obiettivo principale di questi laboratori è la reintegrazione nel tessuto sociale".
Qual è la parte più difficile di lavorare con persone che hanno un vissuto così “pesante” alle spalle?
"Incontro detenuti con situazioni estreme. Mi piace menzionare Romolo Napolitano, che è scomparso da poco, e che ha passato 35 anni in carcere accumulando reati di vari tipo. Quando l’ho conosciuto meditava vendetta per le morti di sua figlia e di suo nipote avvenute in un incidente; con lui solo dopo un lungo lavoro siamo riusciti ad ottenere dei risultati importanti e a scardinarlo da questa ossessione, tanto che una volta uscito è diventato parte integrante della compagnia. Non nego che nel film “Ombre della Sera”, un esperimento cinematografico che ha visto la partecipazione di Pippo Delbono, ci sono stati momenti di grande tensione: sul set Romolo ha fatto un transfert di emozioni e ad un certo punto lui interpretando sé stesso, un “tassinaro” che teneva in ostaggio un medico, è sembrato volere dare davvero gas alla macchina per andarsi a schiantare. Questo è il nostro rischio: fino a che punto attraverso lo strumento artistico possiamo avvicinarci alla ferita della persona per ricucirla?"
Come è nato lo spettacolo “Famiglia”?
"Gli attori si sono formati nei laboratori che conduco in collaborazione con l’università La Sapienza di Roma, nei quali partecipano anche gli studenti, in modo da creare una condivisione di esperienze. L’allestimento in questione, che coinvolge 13 interpreti, si pone l’ambizioso obiettivo di andare oltre il carcere: “Famiglia” nasce da un’elaborazione delle conseguenze che la detenzione ha sulla vita famigliare ma nella ricomposizione scenica la trama non ha nulla a che vedere con la prigione. Ci sono le difficoltà tra padre e figli e tutte quelle dinamiche in cui lo spettatore può ritrovarsi. Per i ragazzi della compagnia è un momento importante, una sorta di liberazione. Sanno che il pubblico di Milano li giudicherà per le loro qualità e non più per la loro storia personale".