La casa museo più sconosciuta di Milano, a un passo dal Duomo

Il piccolo Vittoriale in salsa meneghina apparteneva Emilio Carlo Mangini che, alla sua morte, lasciò più di 3mila oggetti a chiunque volesse vederli

Casa Mangini Bonomi

Casa Mangini Bonomi

Milano, 22 agosto 2019 - “Civiltà istinto passione sensibilità studio ...daneé” si legge all’ingresso delle stanze della collezione. Dal 2003, quando Emilio Carlo Mangini è mancato, non è stato toccato niente dei più di 3600 suoi oggetti. Non si stenta a credere che anche il motto, strambo quanto profondamente meneghino, sia della stessa mente che ha concepito questo museo delle meraviglie.

Se, come scriveva Edgar Allan Poe, il modo migliore per nascondere qualcosa è tenerla in piena vista, il Museo Mangini Bonomi da 34 anni è nascosto al meglio al numero 20 di via dell’Ambrosiana, in pieno centro, tra la Pinacoteca e piazza san Sepolcro. Una targa d’ottone e uno stendardo sulla strada segnalano l’esistenza della casa-museo più sconosciuta di Milano. Al suo interno una decina di stanze sorprendenti, una wunderkammer di oggetti straordinari proprio in ragione della loro “banale” quotidianità, che di solito impedisce loro di sopravvivere nei secoli. Le importanti collezioni private sono fatte di opere d’arte di pregio, oggetti rari e manufatti di valore; chi si sognerebbe di mettere da parte mazzi di carte, statuette da presepe, cavalli a dondolo, porcellane, macine? Eppure oggi tutte queste “anticaglie” un valore lo hanno eccome: basta mettere il naso in una delle sale del museo per sentirsi subito investire dalla fascinazione per questi ammennicoli, per farsi contagiare dalla passione accumulatoria che ogni collezionista sa essere frivola quanto impetuosa, irrazionale quanto ossessiva.

Emilio Carlo Mangini collezionava di tutto: unica ratio era che gli oggetti antichi fossero di uso quotidiano, tanto comuni e ordinari quando vennero prodotti quanto straordinari oggi. Massicci spremierbe in pietra del diciassettesimo secolo, macine da sale, sedie da parto e di dentisti, cavalli a dondolo, wc portatili del diciannovesimo secolo, tazze salvabaffi francesi, campanelle conventuali, una ghironda francese, abiti maschili e femminili settecenteschi, crocifissi che celano pugnali, una collezione di bacili da barba in ceramica e una di bastoni da passeggio “personalizzati” che nascondono all’interno qualsiasi cosa: lame, un domino, orologi, bussole, portacipria, portasigarette, dadi, servizi da cucito, un flauto, un canna da pesca. Giochi in scatola del Sette e Ottocento, carte da gioco disegnate a mano, urne del 700 per votare, posate dei Savoia del 500 e strumenti da cucina di ogni epoca, orologi da tasca e orologi ad acqua, reliquie, cassoni, scrigni, presse per la produzione artigianale delle ostie. Un ventaglio autografato su ogni stecca da un personaggio presente al pranzo della scrittrice Irene Sironi, zia del collezionista: si riconoscono tra le altre le firme di D’Annunzio, Eleonora Duse e Puccini. Perfino una teca contenente una ciocca dei capelli di madame de Pompadour e una copia autenticata del testamento di Napoleone. E a impressionare è anche l’affascinante disposizione dietro le teche, con gli oggetti allineati e divisi per ambiti, poi per tema e parentele reciproche.

Il creatore di questa meraviglia nacque a Milano nel 1912, e nel tempo fece fortuna come imprenditore edile. Accanto al suo serissimo negotium coltivava i suoi otia: innanzitutto la scrittura delle commedie in dialetto milanese, rappresentate al Gerolamo, al Teatro delle Erbe, e all’Ariston di Sanremo, poi l’amore per il tennis e le moto nautiche, che gli fece vincere decine di coppe oggi esposte nella biblioteca. E ovviamente le sue collezioni, che nel 1985 aprì ai visitatori attraverso la creazione della Fondazione a suo nome, che tutt’oggi gestisce il museo. L’unico figlio Giuseppe mancò a soli 43 anni. Prima di morire, nel 2003 (aveva 91 anni), Mangini diede alla Fondazione disposizioni fin nei minimi dettagli per trasformare anche le stanze di casa propria (dal secondo al quarto piano) uno spazio visitabile: piccoli aggiustamenti da dare alla cucina per renderla presentabile e i cordoni rossi per fermare i visitatori al di qua del tappeto del salotto (della serie “visitino pure, ma non si siedano sui divani”). Oggi è una specie di piccolo Vittoriale in salsa meneghina, dove il legno della volta a botte del bagno custodisce uno scrigno che di dannunziano ha il gusto per l’antico e l’accumulazione, non certo la pomposità superomistica.

L’ingresso è sempre gratuito nei giorni di apertura: lunedì e giovedì dalle 15 alle 19 e mercoledì dalle 15 alle 17 (gruppi solo su prenotazione). Forse poco per uno spazio che per il valore puramente economico della sua collezione (i “daneé”, avrebbe detto Mangini) non può certo competere con altre case-museo della città, ma che per il fascino variegato degli oggetti che custodisce, e la seduzione immaginifica che potrebbe esercitare su visitatori di ogni tipo, sarebbe benissimo in grado di gareggiare in numero di biglietti strappati con i “cugini” più noti. Oggi sono solo millecinquecento l’anno. Con un rilancio museale adeguato (dai cataloghi scientifici all’apertura a studi e convegni, da un sistema di visite guidate continuativo all’organizzazione di eventi), il Mangini Bonomi può diventare il museo che mette d’accordo i tipi più diversi di visitatori: dai bambini agli appassionati di bastoni da passeggio. Che qui possono scoprire insieme come era la quotidianità di ieri. Perché ad avere in casa un Mantegna nell’Ottocento saranno state una o due famiglie milanesi, ad avere un mazzo di carte erano molte di più.

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