MARIANNA VAZZANA
Cronaca

Chiaravalle, la rinascita della casa che era della mafia

Da tenuta di un boss a rifugio per donne e famiglie

Una vecchia foto della struttura di via Sant’Arialdo

Milano, 11 novembre 2018 - Negli occhi si mescolano gioia e dolore, riconoscenza e sofferenza, speranza e sconforto. «Sono scappata dal Congo perché nel mio Paese non potevo più vivere. In Italia sono arrivata da sola dopo un viaggio difficile durante il quale ho subìto violenze. Vorrei lasciarmi tutto alle spalle, non pensarci più. Qui mi trovo bene, ho imparato l’italiano. Vorrei restare a Milano e diventare mediatrice culturale». Una storia raccolta a Casa Chiaravalle di via Sant’Arialdo 69, il più grande immobile confiscato alla criminalità organizzata in Lombardia, oggi di proprietà del Comune e gestito da Passepartout (consorzio di cinque cooperative sociali) come luogo di accoglienza diffusa.

Tante sono le donne e le famiglie che dallo scorso giugno hanno trovato ospitalità tra queste mura, Centro di accoglienza straordinaria (Cas) per 55 persone inviate dalla Prefettura e Residenza sociale temporanea per altre 15 segnalate dal Comune, rimaste senza casa. Obiettivo di tutti: rinascere. E non è facile quando sul cuore pesa un passato di violenze, di prigionia solo per l’appartenenza a una minoranza etnica o per il proprio orientamento sessuale. Molte donne sono arrivate dall’Africa sole, dopo un viaggio incubo: «La percentuale di coloro che vengono violentate è altissima, sulle navi e prima di salirci. Alcune arrivano incinte, altre abortiscono spontaneamente e rischiano la setticemia perché non curate. In Libia è facile finire in carcere solo per il colore della pelle», spiega Luca Ranieri, coordinatore della struttura ed educatore. Tra gli ospiti c’è chi arriva da El Salvador, Bolivia, Albania, Azerbaigian, Costa D’Avorio, Nigeria, Guinea, Marocco. Non solo donne violentate ma anche transessuali non accettate delle rispettive comunità e minacciate ogni giorno: «Ora ne ospitiamo due, fuggite da Pakistan e Venezuela», continua Ranieri. Tra le famiglie ce n’è una sudamericana: «Siamo dovuti andar via perché ricattati dalle pandillas. Sono stato costretto a pagare per tre anni di fila, minacciavano di far del male alla mia famiglia. A poco a poco stiamo cercando di dimenticare, stiamo ricominciando a vivere – racconta il papà –. I miei bambini ora sono sereni e questo è l’importante».

A Casa Chiaravalle gli ospiti imparano l’italiano, partecipano a laboratori tra cui quello di cucina, a varie attività. Il turn over è continuo. Ora è questa la quotidianità nei 1.600 metri quadri della struttura circondata da 200 ettari di terreno agricolo, un tempo residenza di un boss della ‘ndrangheta. Dal male è fiorito il bene. Quando si lascia Casa Chiaravalle, significa che si è pronti a spiccare il volo verso altri lidi. Verso il futuro.