"Carlo Porta, un campione di lombardismo"

A duecento anni dalla morte omaggio al grande poeta dialettale italiano, amato da Stendhal, che scelse di parlare al popolo

Adriana Asti nelle vesti di Donna Fabia nell’omaggio a Carlo Porta

Adriana Asti nelle vesti di Donna Fabia nell’omaggio a Carlo Porta

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Milano, 4 gennaio 2021 - Stendhal, uno dei patriarchi del romanticismo, amava molto Milano. E anche i suoi poeti, tanto che lo definì le charmant Carline: l’affascinante Carlino. Alludeva a Carlo Porta, il più grande poeta dialettale milanese. Che morì di gotta a soli quarantacinque anni, il 5 gennaio 1821. Due secoli fa.

Era nato a Milano, una delle capitali europee dell’absolutisme éclairé, il 15 giugno 1775. La civiltà dei Lumi – alla quale la cultura milanese, basti ricordare i nomi di Verri e Beccaria, aveva dato un contributo decisivo nell’età teresiana e giuseppina – era già al tramonto. E la deriva rivoluzionaria e napoleonica incombeva.

Porta studiò in collegio dai Barnabiti di Monza e poi a Muggiò, prima di tornare – in seminario – a Milano. Tale formazione religiosa fu all’origine del suo successivo e viscerale anticlericalismo. Si trattava, soprattutto, di una forte avversione – vagamente moralistica – per i riti religiosi, il clero regolare e le gerarchie ecclesiastiche, affini all’aristocrazia reazionaria, arroccata nei privilegi; un’avversione che si trasformava in feroce satira verso la degenerazione dei costumi del basso clero, rozzo e ignorante.

È sufficiente leggere On Miracol piuttosto che Fraa Zenever o Fraa Diodatt. Dal punto di vista ideologico, Carlo Porta era molto pariniano. Respingeva con fermezza il classicismo, espressione della cultura dell’Ancien régime. Condivideva il principio rousseauiano dell’uguaglianza originaria degli uomini, la critica verso la diffusa religiosità, che sconfinava spesso nel bigottismo, e la retriva degenerazione aristocratica.

Credeva nella rivoluzione scientifica del Seicento che, tuttavia, non aveva combattuto con sufficiente determinazione l’alchimia e l’astrologia, il mondo della superstizione e della magia. Non sosteneva il primato della borghesia, ma quello del popolo. Tant’è vero che si mise a scrivere nel suo idioma, cioè il dialetto.

La Ninetta del Verzee (1814) è un autentico capolavoro. È la cruda confessione – in dialetto milanese – di una prostituta, raggirata dall’amante disonesto. Che però non viene idealizzata, secondo i canoni narrativi romantici. Nel momento in cui si cercano di rintracciare nel romanticismo le radici dell’identità nazionale italiana, Carlo Porta si arrocca attorno al valore culturale della sua città, Milano, e della sua regione, la Lombardia.

Gli esiti del Congresso di Vienna lo lasciarono perplesso. Auspicava infatti l’indipendenza – dai francesi, ma anche dagli austriaci – della sua amata Lombardia. Così dobbiamo ricordarlo, come un ineguagliato campione di lombardismo.  

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