Milano – Duecento fantasmi senza nome in Lombardia. Scheletri negli armadi: tra i mille e i duemila in Italia. “Numeri sottostimati. È difficile avere un censimento dei cadaveri non identificati, ma è una battaglia di civiltà che dobbiamo anche a donne e uomini che non sono di ’interesse giudiziario’ e rischiano di cadere nel limbo dell’anonimato”.
Per Cristina Cattaneo, direttrice del Labanof, il Laboratorio di Antropologia e odontologia forense dell’Università degli Studi di Milano, “quei numeri sono uno schiaffo”. Dagli anni Novanta, dalle primissime battaglie con l’associazione Penelope, cerca di incrociare i dati dei cadaveri sconosciuti con i profili delle persone scomparse: “Non abbiamo idea di cosa voglia dire aspettare 20 anni tuo figlio che non torna a casa. C’è un tema di dignità che dobbiamo restituire a chi è sepolto senza nome e c’è un problema di salute mentale per chi ha perso un proprio caro, mai trovato”. Perso due volte.
La professoressa Cattaneo aveva già stretto con il suo Labanof un primo patto a Milano, per la condivisione di dati tra le agenzie, le procure, le istituzioni, gli ospedali. Ora l’ha esteso a livello lombardo. “E il modello va esportato in altri territori con l’obiettivo di avere un meccanismo nazionale”, sottolinea la commissaria straordinaria del Governo per le Persone Scomparse, Maria Luisa Pellizzari. “Una banca dati del Dna non basta”, spiega l’anatomopatologa che si è occupata dei delitti più neri, da Yara Gambirasio a Elisa Claps fino a Saman Abbas, e che è in prima fila per restituire identità e storia ai clochard e ai migranti che hanno perso la vita nei naufragi, dando alle loro famiglie resti sui quali piangere.
"C’è questa idea che basti un prelievo, un capello, un tampone salivale del morto e sicuramente verrà identificato. Non è assolutamente così – scuote la testa Cristina Cattaneo –. Il Dna rimane uno degli strumenti identificativi più potenti. Tuttavia, a volte la persona scomparsa non ha familiari. In altri casi è impossibile recuperare gli effetti personali. E può essere molto difficile un confronto genetico ante morte se il corpo è stato trovato dopo dieci anni, era in mare o carbonizzato. Non sempre il Dna è la soluzione”. È necessario incastrare i tasselli. “Servono esami esterni, lastre, autopsie, prelievi. Non sai mai cosa ti arriverà della persona scomparsa. Può essere uno spazzolino da denti o una foto di tre quarti dove si vedono i tatuaggi. Tutto può essere utilizzato per identificare un cadavere”.
E quindi va registrato, condiviso, messo in rete. Un anno fa Cristina Cattaneo ha dedicato a queste ricerche anche un’ala del Musa, il museo universitario delle scienze antropologiche. La sfida è incisa su una parete, è un chiodo fisso: “In poco meno di trent’anni abbiamo più di cento lapidi anche a Milano con la scritta ’sconosciuto’. Dobbiamo fare di più”. C’è un impegno scritto nero su bianco, che ora è stato condiviso e firmato dalla commissaria Pellizzari, dai prefetti e dai procuratori della Repubblica dei Tribunali lombardi, dalla Regione, da Anci e Comune di Milano e dalla professoressa Cattaneo, a nome del Labanof. La colonna portante è la scienza. “Il diritto al nome – sottolinea il prefetto Renato Saccone – è un diritto fondamentale della persona. In vita e in morte”.