MARIANNA VAZZANA
Cronaca

Milano, tre bimbi non riconosciuti dalle madri in quattro mesi: “La volontà delle donne va rispettata”

Irene Cetin, ordinaria di ostetricia alla Statale, assiste anche le donne che scelgono di non riconoscere i figli: “Mi sembra che i casi siano in aumento”

Irene Cetin è professoressa ordinaria di Ostetricia e ginecologia all’Università degli Studi di Milano

Milano – “Negli ultimi quattro mesi mi sono capitati tre casi di donne che hanno deciso di non riconoscere i loro bambini. I riflettori si sono accesi ultimamente per casi particolari, per il neonato lasciato alla Culla per la Vita, per la bimba affidata al Buzzi, per la piccola trovata purtroppo morta sul cassonetto per la raccolta dei vestiti usati. Ma non è raro per noi addetti ai lavori entrare in contatto con donne in gravidanza che non vogliono o non possono tenere i loro piccoli. La scelta non è mai facile: c’è sempre sofferenza". Lo spiega Irene Cetin, professoressa ordinaria di Ostetricia e ginecologia all’Università degli Studi di Milano. Secondo le stime degli addetti ai lavori, il fenomeno del mancato riconoscimento si rileva a Milano pressappoco una volta ogni mille nascite. Significa che un neonato ogni mille non viene riconosciuto dalla mamma, che lo lascia in ospedale dopo averlo partorito “in segreto”. Un diritto, garantito dal Dpr 396 del 2000. Ma non tutte le donne evidentemente ne sono a conoscenza.

Gli ultimi tre casi hanno scosso la città. Casi diversi ma che secondo lei hanno un minimo comun denominatore?

"Sì. Il problema è il parto non assistito: i rischi per il bimbo e anche per la mamma, in questi casi sono altissimi. Basti dire che la mortalità materna, in Paesi dove non si garantiscono servizi ospedalieri, è 100 volte superiore a quella che si rileva in Italia".

Generalmente le donne che decidono di non tenere il bambino sono seguite anche in gravidanza?

"Certamente. Si rivolgono a consultori o direttamente agli ospedali, mantenendo l’anonimato. Trovano un punto d’ascolto e vengono assistite anche a livello psicologico. Questo è molto importante: tutte le donne in difficoltà devono sapere che la legge garantisce loro di partorire in ospedale, in anonimato e in piena sicurezza. Per sé e il loro piccolo".

Negli ultimi casi che ha seguito, è capitato che le donne abbiano cambiato idea?

"No. Non bisogna partire dal presupposto che la madre naturale sia “meglio“ di quella adottiva. Tante donne non sono in condizione di poter tenere i loro piccoli perché in situazioni di disperazione. Magari sono affette da una dipendenza o hanno avuto altri figli già affidati ad altre famiglie. Ogni caso è a sé".

I casi di “mancato riconoscimento” secondo lei sono aumentati?

"Non ho dati precisi ma, secondo la mia percezione, sì".

E in generale le è capitato che una donna da lei seguita, con l’intenzione di non riconoscere il figlio, scegliesse alla fine di tenerlo?

"Sì. Ragazze molto giovani, inizialmente spaventate e con la paura di dover crescere da sole il figlio, poi hanno cambiato idea, supportate dalla famiglia o da una rete di relazioni che le supportava. A volte si cambia idea se alla base c’è “solo“ un problema di tipo economico. Se la nostra percezione è che la donna non sia sicura di voler separarsi dal suo bambino, noi facciamo di tutto per aiutarla a non arrivare a questa decisione. Lo stesso vale nel caso opposto: se una donna è decisa a non riconoscere il figlio, la sua volontà va rispettata".

La persona che ha abbandonato la neonata in via Botticelli ha fatto in modo fosse visibile. Come mai?

"Nessuno può saperlo. Forse si sentiva in colpa. Non giudichiamola: pensiamo sempre che dietro ogni scelta c’è un grande dolore".