Morto Mauro Bellugi, il ricordo della figlia: "Per sempre con noi..."

Un campione in campo, un uomo meraviglioso nella vita di tutti i giorni. Giada: "Non voleva accettare la sconfitta"

Mauro Bellugi con la figlia Giada

Mauro Bellugi con la figlia Giada

Milano, 21 febbraio 2021 - "Papà non c’è più, ci ha lasciati mezz’ora fa...". Poche parole con un filo di voce, interrotte da un pianto straziante. Viene la pelle d’oca. È mezzogiorno quando al cellulare Giada Bellugi, l’amatissima figlia di Mauro, ci conferma che è tutto vero. Il papà non ce l’ha fatta, dopo le sofferenze degli ultimi mesi per il Covid, la dolorosissima amputazione delle gambe prima di Natale e la fatale complicazione dovuta a un’infezione dopo un intervento all’intestino.

Sembrava che la sua sfacciataggine e la sua voglia di vivere gli avessero permesso di superare anche l’ultimo crudele scherzo del destino. Invece ha perso l’ultima partita dopo aver lottato come un leone per quattro mesi, "perché per uno come lui - ci diceva Giada -, era difficile accettare le sconfitte, in campo come in spiaggia, figurarsi in un letto di ospedale". Aveva ancora tanti progetti in mente: intanto aspettava il suo derby di oggi come se avesse dovuto giocare lui, per tifare i nerazzurri, per ammirare il giovane Bastoni, nel quale si rivedeva e soprattutto per Lukaku al quale sognava di consegnare il primo premio “Pablito”, destinato al capocannoniere del campionato. Poi voleva scrivere un libro, che avrebbe fatto dopo essere andato per provare le nuove protesi alle gambe a Budrio, dove però non c’è mai arrivato che Massimo Moratti gli avrebbe regalato ("Perché Mauro resta uno di noi", ripeteva spesso l’ex patron dell’Inter del Triplete).

Lo scorso 7 febbraio l’ultima telefonata: era il giorno del suo settantunesimo compleanno, ma forse per la prima volta Mauro non era dell’umore giusto: "Ti ringrazio per gli auguri amico mio, ma sono un po’ stanco. Ti chiamo appena sto meglio". Con le visite proibite, era solo in un letto del Niguarda, ma circondato dall’effetto e dalle cure di medici e infermieri e dall’amore della moglie Loredana e di Giada che, seppur a distanza ("Sono loro la mia forza per andare avanti) non lo lasciavano un attimo. Così come gli amici che non smettevano mai di scrivergli o chiamarlo per incoraggiarlo. Era un uomo buono e disponibile Mauro, la simpatia fatta persona e di come si sta al mondo. Della sua carriera di calciatore sappiamo tutto (32 partite in Nazionale, 90 con la maglia dell’Inter, il suo unico gol col Borussia di Moenchengladbach). Poi c’è il Bellugi uomo, padre, marito, amico, tennista, insegnante di calcio per bambini, opinionista tv. Quello che dava un 2 in pagella ai calciatori magari senza spiegarti il perché, oppure che difendeva sempre e comunque la sua Inter dal “rumore dei nemici“. Una vita senza fronzoli, con il vento in faccia e il sorriso davanti a qualsiasi avversità, come dimostrato nelle sue ultime interviste via skype direttamente dalla stanza in cui veniva curato. Si chiama gerarchia dei valori e Bellugi sapeva bene quali fossero le cose realmente importanti. Stare con lui era un piacere, perché c’era sempre da imparare. Quante serate trascorse insieme nei salotti televisivi, quante risate con i suoi aneddoti calcistici mentre si gustava il risottino al tartufo preparato dall’amico Gino in una trattoria di Porta Venezia, prima della solita partita a carte notturna. Sempre disponibile, ironico, riconoscente. "Non smetterò mai di ringraziare Moratti - confessava anni fa - ha aiutato me e tante persone, lui e la sorella Bedi due persone splendide".

E poi raccontava di come fosse cambiata la sua vita dopo aver smesso di giocare. Il calcio era la sua passione, viaggiava nel mondo per scovare talenti ("Portai il nazionale argentino Chamot al Pisa nel 1990") o per guardarsi le partite ("Una volta in Olanda mi scordai il taccuino, chiesi un foglietto a un giornalista e feci le valutazioni in poche righe... tanto erano tutti scarsi"). E poi le partite a tennis, le vacanze in Sardegna, soprattutto a Castiglione della Pescaia con l’amico Mariolino Corso: "Un paese accogliente, il mare e delle pinete fantastiche - raccontava -. Un posto a cui non rinuncio mai, dove trascorrere giornate stupende in spiaggia o a degustare le specialità, dal cinghiale al pesce". Sapeva vivere la vita. Fino all’ultimo ha dato una lezione di ottimismo a tutti quando ha dovuto subire l’amputazione delle gambe. Non ha mai perso il coraggio e ha continuato a raccontare se stesso con dolce ironia. È stato un congedo da campione: non del pallone, ma di una esistenza terrena onorata fino alla fine. E se fosse qui con noi avrebbe brindato. Perché quel sorriso rimarrà per sempre.  

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