
“Quando vivi in un Paese in guerra, minimizzi tutto il resto; tutte le sofferenze che hai vissuto ti sembrano nulla in confronto. In un certo senso, rischiare la vita tutti i giorni è stata la mia salvezza: mi sono lasciata alle spalle la mia infanzia terribile, nella Milano bene, con accanto una madre che mi faceva sentire sempre inadeguata". Anna Prouse ha 53 anni e oggi vive a Palo Alto, negli Stati Uniti. Difficile inquadrarla. Di certo è sempre stata una donna in prima linea fin da adolescente, quando sognava di diventare campionessa di tennis, "e ce l’avrei fatta se non mi si fosse spezzato un ginocchio".
A Milano ha frequentato la Scuola tedesca e si è laureata in Scienze politiche alla Statale. Ma ha trovato la sua dimensione in Medioriente. Prima come giornalista e poi come delegata della Croce Rossa, scelta per dirigere un ospedale da campo a Baghdad. Successivamente è stata nello staff del Cpa (Coalition provisional authority), il governo provvisorio legittimato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu per rovesciare il regime dittatoriale di Saddam Hussein. E il generale americano David Petraeus l’ha voluta come capo della ricostruzione di una provincia nel Sud dell’Iraq.
Sopravvissuta a tre attentati in Iraq, ha scampato una fatwa (condanna a morte per ordine di una autorità religiosa) e si è poi trasferita in America con il marito Matt, un marine conosciuto a Baghdad, lavorando nella Silicon Valley. Esperta di terrorismo e antiterrorismo e di ricostruzione e sviluppo delle identità nazionali, ora sta combattendo la sua battaglia contro un tumore al cervello. "Forse è ora di scrivere – mi sono detta –. Ed è venuta fuori la mia autobiografia: “Della mia guerra, della mia pace”, edita da Harper Collins, che sarà presentata oggi alle 18.30 alla Triennale e lunedì alle 18.30 alla sede della Croce Rossa in via Marcello Pucci.
Come mai, questo titolo?
"Perché paradossalmente ho trovato la mia pace in guerra. In Iraq ho trovato l’Anna che mia madre voleva schiacciare".
Ha vissuto l’11 settembre in Iran?
"Sì. Contrariamente a quanto pensavano gli occidentali, non c’erano “bandiere bruciate“ né azioni di trionfo. Anzi erano tutti mortificati, prendevano le distanze da quei piloti. Allo stadio di Teheran ci fu un minuto di silenzio per le vittime".
È sopravvissuta a tre attentati. Che cosa ricorda di quei momenti?
"Il primo, per esempio, è stato la mia doccia fredda sotto il fuoco. Era settembre 2003 e lavoravo per la Cpa. In auto eravamo in cinque, con la guardia del corpo. A un certo punto quest’uomo è sceso. Io avevo un brutto presentimento. Pensavo volesse agevolare le manovre di parcheggio dando indicazioni dall’esterno. Invece ho sentito un rumore (un click) e poi ha sparato. Ho avuto l’istinto di buttarmi subito a terra e mi sono salvata. Gli altri tre sono morti".
Com’è scampata alla fatwa?
"Muqtada al-Sadr, il più famoso capo religioso in Iraq, aveva dichiarato la jihad contro gli Usa. Non si faceva problemi a far saltare in aria la gente ma con me aveva paura perché avevo la popolazione dalla mia parte (ero a Nasiriyah da anni): predicava l’odio contro l’Occidente ma io ne mostravo il volto buono e compassionevole. Ho chiesto aiuto al capo della polizia, il generale Sabah al-Fatlawi, intervenuto in mio favore. Incredibile perché un iracheno, nemico giurato di al-Sadr, ha rischiato la vita andando in Iran (dove al-Sadr viveva) per salvare la mia".
L’opinione pubblica si spacca sul conflitto Israelo-Palestinese. Lei come la pensa?
"Odio questo modo di affrontare la questione, che è molto complessa, riducendola al tifo per una squadra o per l’altra. Non è così. In Italia ancora ci si indigna vedendo ragazzini di quei luoghi che imbracciano il kalashnikov: ma non è una loro scelta! Ci sono nati, in questa brutalità".
Che attività le piacerebbe intraprendere, in futuro?
"Mi piacerebbe tornare in Italia e lavorare per il mio Paese ma non solo: penso al fenomeno delle migrazioni, a chi arriva in Italia dall’Africa, anche da zone che non sono in guerra. Ecco, mi piacerebbe contribuire a creare lavoro nei luoghi d’origine. Potrebbe essere un primo passo".
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