SIMONA BALLATORE
Cronaca

Amalia Ercoli Finzi, la prima ingegnera aeronautica d’Italia: “Ci sono ancora ostacoli per le donne”

La donna che ha fatto parte della missione Rosetta sarà in prima linea anche venerdì, al Festival dell’Ingegneria del Politecnico di Milano, per il quale QN e Il Giorno sono media partner

Amalia Ercoli Finzi

Amalia Ercoli Finzi

Prima ingegnera aeronautica d’Italia, porta il suo nome anche un asteroide a indicare quanto abbia inciso nelle scoperte spaziali, a partire dalla missione Rosetta. Il tutto senza rinunciare ad altre stelle: 5 figli, 7 nipoti. Amalia Ercoli Finzi è ancora al lavoro per Marte e per diffondere la passione per la scienza e la tecnologia alle nuove generazioni. Per questo sarà in prima linea anche venerdì, al Festival dell’Ingegneria del Politecnico di Milano, per il quale QN e Il Giorno sono media partner.

Quando ha iniziato lei nelle aule del Politecnico si contavano cinque studentesse su 650 iscritti. Quanto è stato faticoso essere apripista?

“Ci voleva coraggio. Ma all’università ho trovato un ambiente bello: già allora valeva il merito e io non avevo alcun dubbio sulla mia scelta. Ero brava, i miei compagni mi rispettavano punto e basta. Anche se dopo i primi bei voti ho perso tutti i miei ammiratori (sorride, ndr). I problemi sono venuti dopo, perché fare carriera in qualunque campo è sempre stato più difficile per una donna”.

Cos’è cambiato da allora?

“Ci sono più studentesse che si iscrivono, ci sono meno difficoltà di ambientamento: chi è brava va avanti facilmente e questo porta in molti casi a cercare di restare poi nella ricerca. Gli ostacoli sono diminuiti, ma non sono scomparsi del tutto. C’è ancora tanto lavoro da fare. Io non ho avuto “mentore” da seguire, qualcuno che si fidi di te e ti indichi la strada, un angelo custode che ti mostri gli studi possibili, le figure professionali che si cercano. Nel mio piccolo cerco un po’ di farlo con le mie ragazze: che soddisfazione vederle nei centri di ricerca internazionali, seguire le loro scoperte. Sono davvero in gamba”.

Il termine “ingegnera" è stato sdoganato non solo dall’Accademia della Crusca ma timbrato dall’Ordine degli ingegneri. Una piccola svolta?

“Penso sia più un corollario. Ingegnere finisce con la “e“, potrebbe anche essere unisex. Non vogliamo assomigliare in tutto e per tutto agli uomini, ma portare avanti il nostro modo di fare ricerca. C’è un aspetto che spesso ci contraddistingue: davanti a una delle nostre scoperte, che non è certo meno significativa o importante, valutiamo subito l’impatto, gli effetti e i benefici. In Italia stiamo facendo passi da giganti tutti, abbiamo uomini e donne con idee meravigliose: dobbiamo trovare il tempo di raccontarle di più al pubblico, facendo conoscere le ricadute delle loro ricerche. Di qui la necessità di un Festival dell'Ingegneria”.

E di finanziamenti.

“Punto dolente. Io ho lanciato una proposta: la spesa per la ricerca dovrebbe avere una percentuale fissa del Pil. Per una nazione come l’Italia è il futuro. Un Paese che non finanzia la ricerca è destinato al fallimento”.

Qual è l’invenzione che ha cambiato il suo modo di vedere il futuro?

“Ricordo ancora il giorno in cui - nell'ottobre del 1954 - andai a casa dei vicini a vedere per la prima volta la televisione, trasmettevano “Lorenzaccio“, un dramma di De Musset. Guardavo l’eccezionalità di una persona che stava lontana da me, ma che io riuscivo a vedere e sentire così vicino. Per me è stato come il teletrasporto: ho capito che cominciava una nuova Era, che avremmo imparato di tutto, nel bene e nel male”.

E fra le sue scoperte, quale la ha emozionata di più?

“Trovare sulla superficie della cometa molte molecole organiche. Non una o due: c’erano i mattoni della vita. Non è sbagliata l’idea che le comete abbiano portato in giro la vita per il Sistema Solare. È stato bellissimo e ha dato senso alle cose che si fanno. La missione Rosetta ha preso vent’anni della mia vita, è stata un grande parto ma da lì ho visto diverse cose: esiste l’Europa. Tanti Paesi Europei hanno saputo lavorare insieme per atterrare sulla superficie della cometa. Da donna di fede mi son detta: io posso arrivare fin qui, adesso tocca al Padre Eterno. E mi ha ascoltata”.

Come si conciliano fede e scienza?

“Senza alcun problema: la scienza è il mondo della logica, la fede il mondo della trascendenza, sono due mondi diversi. E bisogna sapere accettare anche le cose di cui non abbiamo evidenze: Dio non si dimostra in laboratorio”.

Oggi è al lavoro anche per Marte. A che punto siamo?

“L’obiettivo è mandare un equipaggio umano. Non dispositivi solo automatici per i quali adesso ci vorrebbe il semaforo. Sarebbe dovuta partire anche una missione europea, bloccata dalla guerra. La coppia del rover che sta a terra si chiama Amalia come me. Per coinvolgere un equipaggio è necessario impegnare tutte le conoscenze e competenze che ci sono, per garantire il viaggio, la difesa dalle radiazioni, la possibilità di costruire su Marte il combustibile per tornare a terra e risolvere infiniti problemi, anche quelli psicologici. Nelle migliori ipotesi parliamo degli ultimi anni del decennio del ’30: 2038-2039. Io non lo vedrò, sarò dall’altra parte. Sarò direttamente su Marte a dare una mano agli astronauti”.

Cosa vorrebbe scoprire oggi Amalia?

“La tecnologia mi ha seguita in quello che volevo conoscere e va avanti veloce: ho visto saltare la Torre di Babele con l’intelligenza artificiale che traduce in diretta in tutte le lingue. Sa cosa vorrei davvero? Che si trovasse il metodo per trasferire al cuore delle persone i valori imprescindibili: la carità, il volersi bene, il rispetto per le donne. Ma non basta un programma, forse neppure un cuore artificiale, anche se ci stiamo lavorando. Ecco, vorrei vedere e scoprire un’umanità in pace”.