
IMPEGNO A sinistra l’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera durante la visita al centro medico dell’ospedale Sacco di Milano
Milano, 2 dicembre 2017 - Teresa ha 38 anni, col suo compagno Giacomo stanno cercando di avere un bambino: «Credo sia naturale, un desiderio che nasce nelle donne». Solo che lei, per la fecondazione in vitro, deve prendere diversi treni e autobus per raggiungere l’ospedale Sacco di Milano, dove c’è l’unico centro pubblico in Italia di procreazione assistita per coppie in cui almeno uno è positivo all’Hiv. È il centro che ha trattato più casi al mondo: dal 2002 più di diecimila procedure e più di mille bambini nati, «tutti sani» precisa la responsabile Valeria Savasi. A lei si rivolgono ogni anno un centinaio di coppie, il 20% da fuori regione, per concepire senza trasmettere il virus. Se è positivo l’uomo si fa un “lavaggio” che lo elimina dal seme. Se è positiva la donna, si impedisce di contagiare il feto con la terapia antiretrovirale: i farmaci che “addormentano” il virus hanno abbattuto dal 20% a meno dell’1% le possibilità che passi attraverso la placenta in tutte le gravidanze. Ma per la fecondazione assistita le donne devono avere viremia bassa. Le coppie col problema dell’Hiv sono il 30% delle 300 seguite dal centro ogni anno; un altro 10% ha il problema dell’epatite, il resto solo dell’infertilità. Che tocca anche gli Hiv positivi, a causa dei farmaci che devono prendere tutta la vita. Ma in 15 anni al Sacco sono riusciti a far nascere anche alcuni bambini senza Hiv da genitori entrambi sieropositivi.
«Persone che si erano negate di avere figli e ora, se si curano, hanno questa prospettiva», dice l’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera, che nella giornata mondiale della lotta all’Aids ha voluto visitare «questo luogo che aiuta la vita». Dagli anni ’80, quando l’Aids uccideva e il Sacco divenne la prima linea lombarda, uno dei due ospedali di riferimento in Italia. Il direttore del dipartimento di Malattie infettive Giuliano Rizzardini s’è fatto tutta la guerra, dall’Africa «quando le persone morivano come mosche» a oggi che «vivono quasi quanto le altre, grazie ai farmaci che ci permettono non di guarire ma di controllare la malattia». Oggi il Sacco segue più di seimila pazienti di cui 5.897 in terapia antiretrovirale, una spesa di oltre 42 milioni nel 2016. In Lombardia si superano i 200 milioni per 28.913 sieropositivi, ma preoccupano di più i 793 (di cui 173 donne) che hanno contratto l’Hiv l’anno scorso, e i 198 (156 uomini) che hanno scoperto di avere già l’Aids. Il 60% contagiati con rapporti omosessuali, l’età media 25 anni.
Vania Giacomet dirige l’Infettivologia pediatrica: 106 sieropositivi seguiti, il 20% ha meno di sette anni, il 40% da 7 a 14, l’altro 40% è nell’adolescenza. «L’età più difficile», dice. Per chi ha preso il virus dalla madre quando non c’erano i farmaci: «Le prime relazioni li mettono di fronte al problema di dirlo, perché c’è lo stigma». E per i sani «che non hanno la percezione del rischio, perché s’è abbassata la guardia». A settembre, in una sola settimana, ha diagnosticato l’Hiv a tre ragazzini di 13-14 anni. Trasmesso per via sessuale.
Teresa sgrana gli occhi. Lei l’ha preso a 15 anni, «e non avevo miliardi di ragazzi, ne è bastato uno. Bello, più grande di me. Lui è morto. Ma era il ’96, magari avessimo avuto le informazioni di oggi... Come fanno a essere così incoscienti?» Si arrabbia Teresa, e mica perché stia malissimo («Sarebbe molto peggio il cancro»). Ma Teresa e Giacomo sono nomi di fantasia: «Non lo dico quasi a nessuno. La gente è ignorante, sento come ne parla: farebbe fatica a darmi la mano. Neanche il mio medico di base lo sa. Non mi curo nella mia città, non chiedo l’esenzione». A suo figlio lo dirà? «Non voglio dargli il peso, lo porto già io. Ma farò in modo che si protegga. Perché ti cambia la vita».