
L’arrivo da soldato, il colpo di fulmine per l’Italia, i lavori con Arbore, Boncompagni e Bongiorno. Le esibizioni da cantante, le pubblicità da modello, l’accusa di plagio a Baglioni. Tra crisi e ritorni.
Era il clochard musicista, arrivato da Nashville Tennessee, la città della musica com’è chiamata negli Stati Uniti, e aveva eletto come sua patria definitiva Milano, dove aveva portato la sua vita e i ritmi jazz e country che gli battevano nel cuore. Poi le vicissitudini di un destino ostile, fra cui un matrimonio che gli aveva regalato due figlie ma poi era finito male, lo avevano spinto ai margini, fino a vivere sul marciapiede. Quello di via Torino, a due passi dal Duomo, sua residenza definitiva. Se n’è andato in silenzio, in punta di piedi, Roye Lee il “barbone”, per dirla con un termine che in milanese ha sempre avuto un’accezione affettuosa, più famoso di Milano. Aveva 90 anni.
Una vita vissuta fino in fondo, quella di Roye. Musica, affetti, passione e quell’amore per l’Italia, scoppiato negli anni Cinquanta quando c’era arrivato da militare dell’esercito statunitense, e che non l’aveva più lasciato fino a spingerlo negli anni Settanta a scegliere di restarci. A Milano porta con sé un bagaglio di tutto rispetto: le collaborazioni con Elvis Presley, Sinatra e Dean Martin. Conosce Ernest Hemingway. Vede nascere, musicalmente, Bruce Springsteen. È l’autore e l’interprete di centinaia di canzoni in inglese.
Anche in Italia entra in contatto con il mondo della musica e del cinema. Lavora con Renzo Arbore, Gianni Boncompagni, Mike Bongiorno. Va allo scontro con Claudio Baglioni, che accusa di plagio per avergli copiato “Who’s gonna break your heart”. Fa il testimonial di una marca di jeans. Lui si presentava così, anche sui social: "Compositore, scrittore e cantante. Produttore, attore e modello. Da Nashville a Milano, Italia".
Poi la vita che prende una piega inaspettata. Dolorosa. Ma alla quale lui aveva deciso di rispondere senza mai perdere il buon umore. Almeno all’apparenza. E così diventa il senzatetto dall’accento americano. Quello che non chiede l’elemosina, ma regala sorrisi. Impossibile per chi lavora fra il Duomo e il Carrobbio, o passa da via Torino, non imbattersi in Roye. Con la sua lunga barba bianca. Magari impegnato a leggere il New York Times. Nel 2007 arriva un tentativo di redenzione. Grazie a un angelo custode che prende le sembianze di Cristina Mesturini della Croce Rossa, che lo convince – lui che aveva ormai come domicilio il dormitorio di viale Isonzo – a trasferirsi in un alloggio messo a disposizione dalla Croce rossa milanese. E soprattutto a ridare linfa vitale alla musica, quella suonata. Nel marzo 2009 Roye torna infatti sul palco per un concerto dal vivo al Trottoir di piazzale XXIV Maggio.
Nel 2016 riceve al teatro Dal Verme, dalle mani del direttore di Radio Meneghina Tullio Barbato, la targa alla carriera. Fra i tanti aneddoti, c’è quello di chi lo vedeva spesso scrivere sui tovaglioli del centro commerciale di via Colletta. Frasi, pensieri. E chissà, forse anche ricordi come quell’epico incontro con Hemingway: "Quando venne a Nashville lo portai a visitare una distilleria...".