Badante uccisa a Miradolo, l'urlo di Giulia: "Giustizia per mia sorella"

Ha scelto di non partecipare all’udienza l’imputato Franco Vignati, 64 anni, ex assessore di Chignolo Po

Giulia Kruja si batte per la giustizia sulla morte della sorella

Giulia Kruja si batte per la giustizia sulla morte della sorella

Miradolo (Pavia), 13 settembre 2018 - «Chiedo giustizia per mia sorella». Ieri mattina in Corte d’Assise a Milano Giulia Kruja non è riuscita a tratenere le lacrime. Grande emozione in aula per la prima udienza del processo per l’omicidio di Lavdije Kruja (conosciuta come Dea), la quarantunenne badante albanese di Miradolo uccisa il 30 maggio 2016 con un colpo di pistola alla nuca e gettata nel Po. Ha scelto di non partecipare all’udienza l’imputato Franco Vignati, 64 anni, ex assessore comunale di Chignolo Po, in carcere a Lodi dal 16 febbraio con l’accusa di omicidio volontario e premeditato con l’aggravante dei futili motivi e occultamento di cadavere.

Presenti invece in aula uno dei due figli della vittima, l’ex marito e la sorella maggiore Giulia che con Dea ha vissuto a Miradolo per diversi anni, compreso il periodo della relazione della sorella con Vignati. Per circa due anni infatti l’imputato ha alloggiato a casa della 41enne. «Vignati è sempre stato un bugiardo – dice Giulia, che era stata anche interrogata dai carabinieri dopo il ritrovamento del corpo –. Dea ha voluto aiutarlo accogliendolo a casa nostra per quasi due anni. Lui in cambio aiutava mia sorella a sbrigare alcune pratiche burocratiche. Ma non è vero che manteneva mia sorella. Vignati non ha mai pagato nulla. Dea si è fidata di una persona cattiva». In aula ieri si sono costituiti parte civile i figli, l’ex marito della vittima, una nipote e alcuni dei 13 fratelli e sorelle residenti in Albania. Per il pm Emma Vittorio, che da Lodi ha deciso di rappresentare in aula a Milano l’accusa, non ci sono dubbi che sia stato Vignati a premere il grilletto per uccidere Dea. Per la difesa dell’imputato invece si tratta di un quadro probatorio tutto da dimostrare, a partire dall’arma del delitto.

La pistola calibro 7,65 utilizzata per uccidere Dea, secondo l’accusa, è proprio quella detenuta legalmente da Vignati in una giacca a casa della sua ex moglie, ma per la difesa non ci sono sufficienti tracce di polvere da sparo nella canna della pistola in grado di dimostrare che si tratti proprio della stessa arma. E poi il luogo del delitto. Per la Procura l’omicidio è avvenuto a Orio Litta, Comune nel Lodigiano attraversato dal Po, ma per gli avvocati di Vignati ( Francesca Bricconi e Francesca Cappelli) non è un fatto dimostrabile. Intanto, dal carcere Vignati continua a dichiararsi innocente. L’uomo è accusato di aver sparato alla ex e di aver gettato il corpo nel Po, seguendo un lucido e feroce copione criminale. Il corpo della badante albanese, infatti, era riaffiorato dal Po solo l’8 giugno 2016, nove giorni dopo la scomparsa, in località Monticelli d’Ongina (Piacenza). Dettagliata la ricostruzione dell’accusa: Vignati avrebbe convinto Dea a incontrarlo con la scusa di proporle un nuovo lavoro. Un ultimo incontro prima di lasciarsi per sempre.

A quell’incontro però Vignati si sarebbe presentato con la sua pistola calibro 7,65 che deteneva legalmente nella casa della ex moglie. Un particolare che ha indotto gli inquirenti a contestargli anche la premeditazione dell’omicidio. La prossima udienza è stata fissata per il 3 ottobre. In aula sfileranno i primi testi.