
Della morte di Michela Marelli, la 46enne impiegata che il 16 giugno era annegata nella piscina di casa dopo essere scivolata in acqua, nessuno ha colpa. Tantomeno il marito, sospettato di non aver sorvegliato adeguatamente la consorte, affetta da problemi di salute che rendevano frequenti le cadute. Ne è convinta la procura, che ha chiesto l’archiviazione del fascicolo.
Unico indagato - per omicidio colposo - era il compagno. Sin da subito il dramma era apparso di natura accidentale. A scoprire Michela sul fondo della piscina della villetta di via dei Partigiani era stato proprio lui, alle 17,30, di ritorno dal turno di lavoro all’Iveco, e la figlia sedicenne, rincasata con il padre. L’indagine era volta a ricostruire eventuali responsabilità e a verificare se l’incidente, capitato in un frangente in cui la donna si trovava da sola, poteva essere evitato.
Per il pm Antonio Bassolino la risposta è chiara: "Si ritiene che la morte di Michela Marelli non sia riconducibile ad alcuna responsabilità del marito, care giver della medesima, dal quale non poteva esigersi una condotta diversa da quella effettivamente tenuta", scrive il magistrato. L’uomo non poteva dedicarsi in modo totalizzante alla consorte, dovendo assolvere anche ai suoi doveri lavorativi.
Poteva contare su una rete di aiuti, in particolare sulla presenza costante del suocero, quasi sempre in casa con lei. Il giorno della tragedia la donna lavorava in smart-working seduta vicino alla piscina e il genitore, conoscendo le sue condizioni, le aveva suggerito di allontanarsi. Invito sul momento raccolto dalla figlia, la quale tuttavia poco dopo, durante un momento di assenza del familiare, è ritornata vicino alla vasca, è caduta ed è annegata.
Beatrice Raspa