
La Corte dei Conti ha quantificato in oltre 70mila euro il danno.
Un intervento programmato all’ospedale San Leopoldo Mantic di Merate. Un’isterectomia, l’operazione che comporta l’asportazione dell’utero. Qualcosa, però, va storto: nell’addome della paziente, viene lasciato per sbaglio un ago di sutura.
A più di dodici anni da quel 13 luglio 2012, il primo e il secondo chirurgo dell’epoca, un’infermiera strumentista, altre due infermiere e un medico frequentante volontario hanno dovuto ripagare il danno indiretto provocato all’Asst di Lecco dall’esecuzione non corretta dell’intervento. Sì, perché la donna che si è ritrovata l’oggetto acuminato nella pancia ha fatto causa al centro clinico, ottenendo un risarcimento dall’azienda sociosanitaria territoriale per l’errore medico subìto.
Nei mesi scorsi, la Procura regionale della Corte dei Conti della Lombardia ha citato in giudizio i professionisti che erano in sala operatoria quel giorno, chiedendo loro di versare all’Asst 70.395,50 euro, così suddivisi: 21.384,30 euro per il primo chirurgo, 21.004,80 per la sua vice (entrambi non lavorano più al Mandic), 10.502,40 euro per l’infermiera strumentista, 7.001,60 a testa per le altre due infermiere e 3.500,80 euro per il medico volontario. I sei imputati hanno chiesto o ottenuto di accedere al rito abbreviato, col parere favorevole del pm, chiudendo la causa con il pagamento del 35% della somma contestata a ognuno di loro. Risultato: il 30 gennaio, il collegio presieduto da Antonio Marco Canu ha dichiarato estinto il giudizio, prendendo atto che tutti hanno già versato complessivamente 25.863,70 euro all’Asst.
La vicenda di Merate ne ricorda una molto simile avvenuta a Milano, che nel giugno 2018 si è conclusa con un risarcimento di 200mila euro alla vittima. In quel caso, però, la paziente aveva dovuto convivere per 38 lunghissimi anni con le fitte improvvise provocate da un frammento di ago chirurgico che i medici dell’Istituto ospedaliero provinciale della maternità (l’antenato della Macedonio Melloni) le lasciarono nel 1962. Solo nel 2000, una radiografia aveva causualmente permesso alla donna di scoprire la causa del calvario.
Da lì si era aperto il contenzioso legale, che aveva portato l’avvocato della paziente a scoprire che nella cartella clinica di allora c’era già scritto tutto: "Durante le manovre, un frammento d’ago rimane perso nei muscoli del piano perineale. Non essendo possibile rintracciarlo, se non a prezzo di un’ulteriore grave lesione dei tessuti necessari alla ricostruzione, si rinuncia alla sua estrazione". Peccato che nessuno si sia mai premurato di avvisare la diretta interessata, "neppure ad avvenuta completa guarigione delle ferite".