Paolo Conte: "Sono ancora sorpreso di provare stupore"

Il cantante torna agli Arcimboldi: ho smesso di scrivere per altri perché ho paura di essere tradito dall’interpretazione

Paolo Conte

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Milano - Via con lui. Lunedì e martedì Paolo Conte torna agli Arcimboldi con le sue storie malate di provincia per scivolare nelle parole del celebre umorista francese Pierre Deproges quando lo definiva “un grande insulto alla mediocrità”. Al suo fianco una formazione “eccitata e ninfomane” di undici elementi impreziosita dalle presenze di Jino Touche al contrabbasso e Daniele Di Gregorio alle percussioni.

Ai francesi che la definivano “un artista stupefacente” rispondeva di essere in realtà “un artista stupefatto”. Dopo sessant’anni di canzoni c’è ancora un po’ di quello stupore? "Assolutamente sì. Allora diciamo così: etonnè d’etre etonnant. Sorpreso di essere sorpreso".

Milano è ancora la città in cui naufragavano gli immigrati in cerca di “collacamento miezz’o’ciemento” come cantava in una sua vecchia canzone degli anni Settanta o è cambiata? "Come sia cambiata Milano non lo so, ma credo che in tutte le migrazioni ci sia ancora molto dello spirito che animava quella canzone".

In “Molto lontano”, invece, la vedeva “oltre i gasometri, oltre i manometri, oltre i chilometri e i binari del tram”. "Un tempo, nel mio isolamento piemontese, pure Genova appariva lontana come Singapore. Così ho scritto una canzone in cui guardo a Milano come a delle Colonne d’Ercole dello spirito, la soglia una lontananza misteriosa da traversare per recuperare un po’ di selvatichezza e di primitività".

Quello registrato alla Reggia di Venaria è l’ultimo di una serie di album dal vivo varata da “Concerti” nell’85. "Iniziative prese dal management, che desidera veder documentate le mie esibizioni per le novità del repertorio e delle orchestrazioni".

Subisce ancora il fascino di quel golfo mistico “che ribolle di tempesta e libertà”? "Ogni volta che in Germania vengo ospitato nel grande auditorium dei leggendari Berliner, penso intensamente a Von Karajan, poi faccio un inchino alla memoria del grande direttore e comincio il mio concerto. Il maestro nell’anima è lui… e dentro l’anima per sempre resterà".

Dopo tutto questo tempo, nutre più affetto per i personaggi delle sue canzoni o per i musicisti che ogni sera sul palco l’aiutano a dare vita alle loro storie? "Forse non tutti i personaggi delle canzoni, benché amati, saprebbero essermi amici come lo sono i miei musicisti".

Ha detto di aver cantato “Chia mami adesso” con Jane Birkin perché non avrebbe potuto certo dirle di no. Con quale altra divina le sarebbe piaciuto condividere una sua canzone? "Era tentata di cantare ‘Hesitation’ la cara amica Fanny Ardant. Mi sarebbe piaciuto ma alla fine non se l’è sentita".

L’hanno cantata in tanti. Perché col tempo ha smesso di dare le sue canzoni ad altri. Perché dagli anni Ottanta, eccetto 3 o 4 casi, ha smesso di scrivere per altri? "Per la paura di essere tradito dall’interpretazione. Potendo sovrintendere al lavoro sarebbe stato diverso, ma ad un certo punto questo non è stato più possibile; ‘Messico e nuvole’ con Jannacci è forse l’ultimo brano che ho seguito passo passo fino alla sala d’incisione. E parliamo del ‘70".

Che effetto le fa ripensare alle cravatte sbagliate di quella Lazy River Band messa in piedi con suo fratello Giorgio col pensiero alla Rheno Dixieland Band di Nardo Giardina? "Il Dixieland è la musica del vero “dandy”. In verità le cravatte erano bellissime, raffinate".

Quello americano è rimasto un sogno? "Non mi ricordo più in cosa consistesse il ‘sogno americano".